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Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati. Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata - e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il vino, il rugby e il viaggio.

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I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto arttom17 ­ Fotolia.com
Verticalità / 4: quel San Valentino in ascensore

La compañera e l’elevador
All’Avana, su e giù nel ventre di cemento del Focsa.

di Giorgio Oldrini

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Il 14 febbraio è il mio compleanno e anche San Valentino, protettore degli innamorati. Alla fine degli anni Settanta all’Avana, dove vivevo, per festeggiare la mia ricorrenza prenotai una cena a uno degli alberghi più spettacolari di Cuba, appollaiato sull’ultimo piano dell’edificio Focsa, costruito dagli statunitensi negli anni Cinquanta. È una costruzione immensa nel quartiere centrale del Vedado che un tempo aveva ospitato in appartamenti e appartamentini ricchi americani che venivano in vacanza o in cerca di avventure e che, dopo il ’60, aveva cominciato a essere la casa di tecnici russi o bulgari, rumeni o cecoslovacchi. Molti che arrivavano a Cuba dai Paesi fratelli dell’Europa socialista erano ospitati in quell’edificio alto una quarantina di piani e che si apriva come una sorta di immenso libro, con ai piedi negozi di generi alimentari e barbieri, un piccolo teatro e tiendas varie.
Naturalmente col passare degli anni e col blocco economico il Focsa deperiva. A due passi dal mare era assalito dalla salsedine, l’intonaco mostrava evidenti segni di stanchezza e si diceva che anche negli appartamenti i pezzi di ricambio russi o bulgari per impianti statunitensi scatenassero conflitti non propriamente politici.

Era difficilissimo prenotare una cena al ristorante del Focsa, tanto più il 14 febbraio, quando gli innamorati cubani invadono ogni luogo. A Cuba tutti sono innamorati, qualche volta di due o tre partner nello stesso tempo. Il caso più divertente che mi era capitato era quello del leader del gruppo di suonatori di tamburi, Los Papines. Quattro fratelli “nero telefono”, come a Cuba si chiamano i neri neri, che suonavano come dèi quegli strumenti dei loro Dèi. Erano amici nostri e un giorno avevo incontrato raggiante il più grande dei quattro. «Tra poco divento padre di due bambini», mi aveva detto con orgoglio. «Che bello - ribattei ingenuo io - due gemellini!» - «No, no, da due madri diverse».

Forse per facilitare quelli che hanno appunto due partner da portare a cena a San Valentino, al ristorante ci sono due turni, alle 20 e alle 22. Noi avevamo prenotato molto tempo prima e ci era toccata la prima serata. Ci vestimmo di tutto punto, io con la guayabera, la tipica camiciona tropicale con tante tasche e piccole pieghette, ma con le maniche lunghe, quindi nella versione elegante. Mia moglie con un abito che lasciava vedere le ginocchia e una vezzosa sciarpa colorata che la rendeva sexy e la proteggeva dall’aria condizionata e dai conseguenti attacchi di cervicale. Mia figlia Silvia di 4 anni con le treccine piene di nastri che la facevano assomigliare a un uovo di Pasqua.

foto di Paolo Tedeschi
Salimmo con molti altri sull’ascensore sbuffante che ci portò dopo un tempo che mi sembrò decisamente lungo al quarantesimo piano. Allora il vero padrone di Cuba era il Capitàn, cioè il caposala di un ristorante. Aveva un potere assoluto e insindacabile. Quando ero arrivato all’Avana nel 1975 mi avevano ospitato per i primi giorni all’immenso hotel Habana Libre, l’ex Hilton di prima della Rivoluzione. Feci subito amicizia con il corrispondente del quotidiano del Pc francese L’Humanité, José Fort, arrivato anche lui proprio in quei giorni e andavamo insieme a mangiare al ristorante dell’ultimo piano, amplissimo e bellissimo perché da lassù si dominava tutta la città e si vedevano il mare, il porto, il faro. In quegli anni non c’era turismo a Cuba e nei 27 piani dell’Habana Libre vivevamo circa cento persone, molti esiliati eccellenti dei Paesi dell’America latina. José Fort e io salivamo a mangiare e i primi tempi ci sedevano a uno qualsiasi dei tavoli di un ristorante vastissimo e assolutamente vuoto. Il Capitàn accorreva con aria di severo rimprovero e alzando il dito ci diceva: «Non in quel tavolo, in quell’altro tre posti più a destra». Perché?, ci domandavamo noi occidentali razionalisti. Ma ubbidivamo. Quando tornai a Cuba molti anni dopo entrai in un ristorante e disciplinato chiesi al Capitàn: «Dove mi siedo?» E lui con un grande, sorprendente sorriso: «Dove vuoi». Capii che c’era stata un’altra rivoluzione. Minuscola, questa, ma quasi tanto importante come quella maiuscola.

Così la sera di San Valentino mia moglie, mia figlia ed io attendemmo pazientemente che il Capitàn del Focsa ci concedesse di poterci sedere a un tavolo, esattamente uguale agli altri. Cominciammo a mangiare un’ottima cena, davanti a un panorama mozzafiato, sotto di noi L’Avana illuminata, il lungo Malecòn, il mare. Arrivati al secondo, il Capitàn si presentò in posizione strategica, si schiarì la voce e ci comunicò: «Cari compagni del primo turno, mangiate pure tranquilli, perché si sono rotti gli ascensori». Ci fu un brusio.

C’era la soddisfazione di non vedere arrivare le coppie del secondo turno, a passare almeno qualche minuto a soffiare sulle nostre nuche, spingendoci a finire in fretta il dessert e a togliere il disturbo. Ma c’era anche preoccupazione: riusciranno gli eroici lavoratori ad aggiustare gli ascensori prima di mattina? Il dolce fu abbondante, probabilmente sottratto a quelli che non sarebbero mai saliti sulla vetta del Focsa. Poi il caffè, persino ripetuto se lo si gradiva. Molte coppie che dopo la cena avevano in programma un dopocena cominciarono a rumoreggiare. Alle undici di sera riapparve il Capitàn: «Se qualcuno vuole, c’è una soluzione alternativa. Scendete a piedi sei piani dalla scala di sicurezza. Lì troverete un ascensore di servizio, quello che si usa per spostare le merci e la spazzatura. Non è un granché, ma funziona». In colonna molti affrontammo i sei piani, tanti, ma in discesa. Effettivamente c’era un ascensore che in realtà era un montacarichi, un po’ puzzolente, ma con una compañera che lo manovrava, come spesso succedeva a Cuba dove occorreva trovare un lavoro a tutti, anche non proprio produttivo. Entrammo nel montacarichi una ventina di persone e la compañera schiacciò il tasto dell’a terra. Il montacarichi partì sbuffando e inopinatamente si fermò al quarto piano. «Scendiamo qui e facciamo le scale fino a terra», azzardammo, ormai sognando la strada. «Neanche per sogno ­ rispose piccata la compañera ­ qui comando io e si scende con el elevador fino a destinazione». Schiacciò di nuovo il tasto dell’a terra e partimmo tutti verso l’alto. Ci fu un moto di sorpresa, poi di timore. «Niente paura - rassicurò tutti la compañera - Adesso scendiamo». Schiacciò l’a terra e il montacarichi ubbidì, tra cigolii e sbuffi. Ma si fermò al quinto piano. «Basta, adesso andiamo a piedi», implorammo tutti. Ma la compañera fu irremovibile: «Si scende con l’elevatore». E schiacciò l’a terra. Il montacarichi ripartì. Verso l’alto. Ritornammo al 35° piano, tra mormorii e le prime urla di terrore di qualche donna. Gli uomini a Cuba devono essere machos, duri e coraggiosi, quindi non potevano certo abbandonarsi alla paura. Però... Anche la compañera cominciò ad avere i primi dubbi e con una certa riluttanza schiacciò l’a terra. Il montacarichi scese con i soliti gorgoglii e si fermò al quarto piano. «Adesso basta!», gridammo tutti e uscimmo travolgendo la compañera ostinata che sotto voce voleva costringerci a continuare quella terrorizzante altalena. Dopo quattro piani di scale uscimmo dal Focsa e lasciammo alle spalle il più incredibile San Valentino della mia vita. Mia figlia per mesi non prese più un ascensore. Io sì, gli uomini devono essere machos. Però...

Giorgio Oldrini, giornalista professionista dal 1973, ha lavorato all’Unità (è stato corrispondente da Cuba e inviato in America Latina per 8 anni), all’Ansa e a Panorama. Dal 2002 è sindaco di Sesto San Giovanni, sua città d’origine

     
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