Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto SGV - Fotolia |
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Senegal 3: tra
gli immigrati africani in Italia Ma
l’Uomo Nero non morde più Cinque
(o sei) sensi contro i controsensi. E con buon senso.
di Giulia Pepe |
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Da piccola, il mio terrore era l’Uomo Nero. Era l’Uomo Nero a portarti
via se facevi la cattiva, la monella. Per tanto tempo il nero è stato
il colore della paura. Per me come per tanti altri bambini. Ora invece
l’Uomo Nero è seduto accanto a me in metropolitana, è davanti a me
in coda alla cassa del supermercato o, nel peggiore dei casi, cerca
di vendermi qualcosa di cui non ho bisogno. Quest’Uomo Nero è venuto
da me non certo per portarmi via, ma per realizzare i suoi sogni.
Un po’ come tutti. L’Uomo Nero non sa però che se vuole stare qui
deve sopportare il fatto che noi bianchi abbiamo un po’ paura del
nero. O forse l’Uomo Nero questo lo sa e per questo si chiude nel
suo ghetto evanescente, costruito senza mattoni e cemento, ma con
tradizioni, lingua e religioni. Ghetto difficile da abbattere, perché
una ruspa non basta. Anche perché nessuno ha tanta voglia di farne
crollare le mura. L’Uomo Bianco difficilmente entra nel ghetto, e
l’Uomo Nero difficilmente ne esce. Tra i due colori ci sono problemi
di ascolto. E la convivenza diventa una chiamata a un cellulare che
risponde che il cliente non è al momento raggiungibile.
Perché non provare a risolvere questi problemi di linea? Per farlo
occorre, innanzi tutto, restringere il campo, perché l’insieme “Uomo
Nero” è troppo vasto. Diciamo che il nostro Uomo Nero viene dal Senegal,
Stato dell’Africa occidentale che finora ha regalato all’Italia circa
70.000 cittadini (dati Istat), che hanno dato vita alla comunità nera
più numerosa. Il nostro Uomo Nero viene da un Paese a maggioranza
musulmana, ma che non ha nessun problema a accettare la minoranza
cattolica. Viene da un Paese in cui la guerra non c’è mai stata ma
che parla francese perché i nostri cugini d’Oltralpe lo hanno colonizzato.
L’Uomo Nero tra gli amici parla wolof, la lingua dell’etnia dominante,
una lingua in cui prego si dice gnoko bokk, che significa
«io e te dividiamo questa cosa».
Quando è qui, l’Uomo Nero pensa al suo Paese, anche perché le persone
che in genere frequenta sono suoi connazionali ed è facile immaginare
che in queste “riunioni” la patria lontana sia esaltata come mitica.
Quando si parte per uno Stato straniero, in valigia, oltre ai vestiti,
si mette sempre qualcosa del proprio Paese. E come gli italiani insieme
alla pasta e alla pizza hanno portato la mafia, i senegalesi in Italia
hanno portato le loro tradizioni e la loro cultura. Con i pro e i
contro.
Per conoscere un popolo non basta un articolo: gli italiani sanno
bene quanto un’immagine, seppur sbagliata, sia dura da far dimenticare.
Ma con poche nozioni, con una specie di manuale di istruzioni per
principianti, potrebbe essere più semplice dare vita a rapporti di
buon vicinato. In aiuto giungono i cinque sensi: la vista, il gusto,
l’olfatto, l’udito e il tatto.
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foto di Ferdinando Baron |
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Vista: un senegalese, quando cammina per
strada, lo si riconosce perché è davvero scuro. Sembra una banalità,
ma la prima cosa da capire e accettare è la differenza cromatica,
essendo la causa più frequente di insulto razzista. Per comprendere
però perché l’insulto per la propria pelle faccia così male bisogna
considerare un aspetto della cultura senegalese: la teranga.
Tradurre questo termine con “ospitalità” è riduttivo: bisogna legare
anche i concetti di rispetto, accoglienza, gentilezza. Carattere che
noi italiani, quando la nostra cultura si esprime attraverso un insulto
razzista, dimostriamo di non avere. E così si chiede Assane, ragazzo
senegalese di 25 anni nel nostro Paese da uno: «Perché se un occidentale
viene in Senegal lo trattiamo come un ospite speciale e siamo onorati
di avere un Tubab - un bianco - con noi, e invece qui a volte
mi guardano con disprezzo?». Per un ragazzo che ha sempre vissuto
in pace, cresciuto con la consapevolezza che le minoranze vanno rispettate,
il razzismo è quasi inconcepibile. In questo, Senegal ed Europa distano
anni luce. Perché, tristemente per noi il razzismo non è una questione
su cui si debba indagare. C’è e basta. Gusto: Ludwig
Feuerbach, un filosofo, disse che «l’uomo è quello che mangia». Normale
che poi gli stranieri abbiano crisi di identità. Una volta, durante
una conversazione con Moustapha, sindacalista senegalese venuto in
Italia 15 anni fa e che qui ha moglie e figli, emerse una cosa emblematica.
Moustapha disse: «I miei figli mangiano cibo italiano alla mensa scolastica.
La sera invece le loro mamme preparano cibo senegalese. Mangiano thiebou
dioun o il mafe, piatti tipici del nostro Paese. Ma che
male c’è?». Come la metterebbe a questo punto Feuerbach? Questi bambini
sono sia senegalesi, sia italiani. La doppia cittadinanza è difficile
da accettare. Senza andare molto lontano anche in Italia si verifica
la stessa cosa: i meridionali che vivono al Nord rimangono sempre,
in fondo, dei “terroni”, ma sono bonariamente presi in giro dai parenti
rimasti al Sud quando tornano “a casa”. Su scala più ampia, questo
succede alle generazioni di stranieri nati nel nostro Paese. Bambini
che potranno scegliere di non avere nessuna terra o due.
Olfatto: quando si sale sui mezzi pubblici, ormai la prima
cosa che si nota è che gli italiani sono in netta minoranza. Normale,
noi abbiamo l’automobile. Altra cosa che si percepisce è uno strano
odore. Perché ognuno si porta addosso, oltre ai litri di profumo che
si spruzza, l’odore della propria abitazione. Nessuno dice che bisogna
sopportare un odore che non piace, ma sarebbe utile smettere di pensare
che gli stranieri puzzano perché non si lavano. Ad esempio il forte
odore che si percepisce stando accanto a un senegalese deriva da tutto
tranne che dalla sua pelle. Per rendere l’ambiente più accogliente
e caldo, nelle loro case usano infatti un particolare incenso, chiamato
thiouray. Ovviamente quest’odore si attacca ai vestiti. La
pelle non c’entra niente. Anche perché basta stare cinque minuti in
una casa abitata da persone senegalesi per assorbire il profumo del
thiouray. Per gli occidentali, non abituati a questo profumo,
può essere difficile adattarsi, ma può aiutare sapere una cosa: «Se
un bianco entra in casa mia in Senegal io sento un odore diverso.
Non per questo penso che non si sia lavato», rimarca Assane. Basta
cambiare continente e a “puzzare” siamo noi.
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foto di Ferdinando Baron |
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Udito: sono tanti i luoghi comuni sul Continente
Nero che i senegalesi sono ormai abituati a sentire. E se quel «dubbio
impertinente» che nel Giudice di Fabrizio De André esprimeva
«una ragazza irriverente» li fa sorridere, altre dicerie sono percepite
come degradanti. Innanzi tutto non tutta l’Africa è quella del Re
Leone. I turisti fanno i safari, vanno alla ricerca della natura
ma questo non significa che le persone vivano sugli alberi insieme
alle scimmie. Spiega Assane: «Quando sono arrivato in Italia tutti
mi chiedevano se nel mio Paese ci sono i leoni. E quando rispondevo
che ci sono, ma solo allo zoo mi guardavano come se avessi detto una
cosa stranissima». Inoltre i senegalesi sono costretti a sentire spesso
affermazioni sulla guerra. Peccato - si fa per dire - che in Senegal
un conflitto non ci sia mai stato. Di conseguenza, sebbene certo la
popolazione sia più povera rispetto a quella europea, perché si trova
meno lavoro, in genere per le strade non si vedono bambini con la
pancia gonfia e le ossicina in vista. Questo non significa che d’ora
in poi dobbiamo pensare che l’Africa sai ricca. Solamente che la generalizzazione
sminuisce un popolo. Tatto: questo senso ci servirà
solo in senso lato. Traslando il significato di questa parola infatti
si può capire un altro aspetto della cultura senegalese. Apriamo il
vocabolario. Tatto: modo di agire e parlare con delicatezza,
senso dell’opportunità. Quando i senegalesi, fatta eccezione per i
cafoni che rovinano l’immagine di tutti i popoli, vengono nel nostro
Paese, in valigia portano il tatto. E la cortesia. Fin da piccoli
i bambini imparano il rispetto, da mostrare soprattutto con gli adulti
e gli anziani. Anche perché quando parla un adulto e dice una cosa,
quella è la legge. Racconta Moustapha: «Ho deciso di fondare una squadra
di calcio qui in Italia per ragazzi senegalesi perché so che loro
ascolterebbero me, un adulto, o il loro allenatore. Solo in questo
modo possiamo, noi che siamo qui da tanto e abbiamo più esperienze,
portarli sulla retta via, evitando che facciano qualche sciocchezza».
Magari con un po’ di scambi culturali si riuscirà a far capire anche
agli occidentali che, se una vecchietta sale sul pullman, ha il diritto
di sedersi?
Provando a guardare da un’altra prospettiva, quindi, l’Uomo Nero fa
meno paura. Posso sedermi accanto a lui in metropolitana senza timore,
posso provare a avvicinarmi a lui: difficilmente mi mangerà. E il
punto di vista si può ribaltare con l’aiuto dei sensi. La vista, il
tatto, l’udito, il gusto, l’olfatto: sono ciò che possono far affermare
di essere un essere cosciente. Acuire i sensi porta solo vantaggi,
soprattutto in termini di integrazione. Poco producenti, quindi, le
fette di salame sugli occhi, i tappi nelle orecchie, il naso tappato,
il pregiudizio alimentare o le braccia conserte. E se volessimo aggiungere
un sesto senso, non sarebbe male se fosse la curiosità. Fare domande,
tornare a essere piccoli e a sentirci inesperti su quasi tutto, non
è mai sbagliato. L’Uomo Nero, che è un tipo tranquillo, in genere
non si arrabbierà. Una prova? Al supermercato, un bambino indica un
ragazzo nero e chiede alla mamma: «Ma se si lava ritorna bianco?».
Non so che cosa abbia risposto la mamma, ma l’Uomo Nero, sono sicura,
ha sorriso. Giulia Pepe studia Lettere
moderne all’università Statale di Milano. Collabora con il quotidiano
Il Giorno e con il periodico Il Diario del Nordmilano, occupandosi
soprattutto di eventi culturali e sociali |
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