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Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano il nucleo redazionale più stabile.
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foto Stephen Sweet - Fotolia.com
La forza dell'inmensa minoria dei parlanti

Cinque secoli di lingua spagnola
Dalla penisola iberica alle Americhe, la vitalità moderna e popolare del castigliano.

di Alicia Miramundos

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Si chiama castigliano ma in Castiglia, sua terra di origine, conta poco più di due milioni e mezzo di parlanti; e anche se si sceglie di chiamarla spagnolo non bisogna dimenticare che è la lingua materna solo del 67% degli spagnoli perché si è abituata a convivere con il catalano, il basco e il galiziano, lingue nazionali sancite dalla Costituzione del 1978.
Nonostante questo, il rapporto 2009 di Ethnologue colloca il castigliano - o spagnolo che dir si voglia - al secondo posto dopo il cinese nella classifica delle lingue più parlate al mondo, con 329 milioni di parlanti madrelingua, un milione in più rispetto all'inglese. È chiaro che se si tiene conto anche delle persone che parlano l'inglese come seconda lingua il numero di anglofoni è superiore. Se poi si pensa alla diffusione dell'istruzione in lingua inglese a livello mondiale, questi dati sembrano ancora più relativi, nonostante l'interesse verso lo spagnolo sia in continuo aumento, come dimostrano il suo recente inserimento come seconda lingua obbligatoria nelle scuole elementari brasiliane e il fiorire di corsi e cattedre di lingua spagnola negli Stati Uniti e in Europa.
Il merito più grande di questa sua forte presenza nel mondo è tutto dei suoi parlanti, da un lato all'altro oceano Atlantico. Se da un lato gli spagnoli negli ultimi vent'anni hanno portato avanti, con la nascita dell'Instituto Cervantes nel 1991, un intenso lavoro istituzionale volto a promuovere la diffusione della lingua all'estero, dall'altro i latinoamericani hanno dato inizio a un vero e proprio processo di “esportazione” linguistica verso gli Stati Uniti e l'Europa. Insomma lo spagnolo, oggi più che mai, viaggia con la sua gente, che ora non è più alla ricerca di terre o mercati da conquistare, bensì di lavoro e condizioni di vita migliori. E, finalmente, grazie al lavoro congiunto della Real Academia Española de la Lengua e di tutte le Academias de la Lengua Española d'oltremare si inizia a riconoscere allo spagnolo americano quella dignità culturale che fino a non molti anni fa sembrava essere prerogativa dello spagnolo peninsulare.

Ma come si è arrivati fin qui? Nel 1492, quando Cristoforo Colombo arriva ai Caraibi, la Spagna sta affacciandosi a un periodo di tale splendore culturale ed economico da essere ricordato come il Secolo d'Oro (1550-1650). Grazie a una oculata politica dinastica, la Corona spagnola era padrona di mezza Europa e il patrocinio della spedizione colombiana avrebbe reso la Castiglia padrona anche di buona parte del subcontinente americano con il nulla osta del papa Alessandro VI. E, sempre nel 1492, uno studioso dell'università di Salamanca, Antonio de Nebrija, scrive la prima Grammatica della lingua castigliana. Quando si sente la necessità di codificare le norme di una lingua significa che la sua diffusione orale tra la popolazione è già un dato di fatto e servono regole che la fissino nelle sue forme scritte, proprio per risolvere oscillazioni e dubbi ortografici, lessicali, morfologici e sintattici. Il dotto salmantino, nella prefazione della Grammatica, scrive che «siempre la lengua fue compañera del imperio» nella speranza che con lo spagnolo succedesse quanto era accaduto con la diffusione del latino nei territori conquistati dai romani. Quello che era forse solo un suo desiderio personale si rivelò quasi una predizione scaramantica. Chi mai avrebbe potuto immaginare che l'impero di Carlo V (1516-1558), forse il re meno spagnolo che la Spagna aveva avuto fino a quel momento - era nato e cresciuto nelle Fiandre e parlava poco e male il castigliano -, sarebbe stato proprio il trampolino di lancio della lingua dall'altra parte dell'Atlantico?
Inoltre, nel 1492 si conclude il lungo processo di Riconquista dei territori della penisola iberica occupati dagli arabi sin dal 711 d.C. I Re Cattolici Isabella di Castiglia e Fernando di Aragona, nonni materni di Carlo V, volevano uno Stato unitario la cui identità poggiava su due principi: una sola lingua e una sola religione.
Ma perché, tra i molti dialetti che si parlavano nella penisola iberica scelsero proprio il castigliano?
La Castiglia di quel tempo era molto più estesa di quella attuale e, oltre ai territori di Castilla-León e Castilla-La Mancha, comprendeva parte della Cantabria e della Rioja. Già dal Medio Evo era una zona di intensi scambi, soprattutto legati al commercio della lana, e il gran viavai di persone provenienti da zone diverse creò la necessità di comunicare in modo efficace: il dialetto castigliano fu particolarmente aperto alle innovazioni, alle semplificazioni e iniziò a essere parlato e compreso da un numero sempre maggiore di persone; fu così che la sua zona di diffusione si ampliò e quella dei dialetti delle zone limitrofe si ridusse.

Nel 1492, dunque, il castigliano era, di fatto, la lingua più parlata della penisola iberica, anche se c'erano ancora molte differenze interne. E il castigliano era anche l'unica lingua che conoscevano i conquistadores spagnoli che arrivarono in America. La maggior parte di loro proveniva dall'Andalusia e dall'Estremadura e quindi la prima varietà di castigliano che si diffuse nel Nuovo Mondo fu quella meridionale. Erano in pochi e parlare la stessa lingua era un modo per rinfrancare la propria identità ispanica in uno spazio sconosciuto. Che senso avrebbe avuto sottolineare le diversità regionali quando tutto intorno si parlavano lingue incomprensibili? Molto più semplice livellarsi e sentirsi tutti spagnoli e uniti nell'affrontare le avversità - anche sociali e psicologiche - che l'impresa americana implicava.
La Corona si arrogava il diritto di autorizzare le spedizioni dei conquistadores; in cambio chiedeva un quinto delle terre e delle ricchezze conquistate e l'obbligo di evangelizzarne gli abitanti. Ben presto si rese conto che i territori d'oltreoceano erano molto più grandi del previsto e fu necessario mandare funzionari che controllassero l'operato dei conquistadores. In America arrivarono dunque due grandi categorie di ispanofoni: da un lato i conquistadores e i coloni, che parlavano una varietà meridionale e più popolare di castigliano, e dall'altro gli amministratori della Corona e i funzionari ecclesiastici, che parlavano e scrivevano una variante colta che si rifaceva alla norma di Toledo. Queste due varietà di castigliano si trovarono di fronte a moltissime lingue autoctone tra cui il taíno, il maya-quiché, il náhuatl, il quechua, l'aymara, il guaraní e il mapuche... Oggi possiamo dire che se alcune lingue indigene sono sopravvissute è anche grazie ai frati missionari (gesuiti soprattutto, ma anche domenicani e francescani) i quali capirono che il processo di cristianizzazione poteva avvenire solo se avessero potuto impartire il catechismo nelle lingue dei nativi. Per tutto il periodo coloniale, il numero di ispanofoni in America Latina fu sempre molto basso in proporzione al numero di abitanti dei territori conquistati.


In meno di un secolo, dal 1810 - quando nel nord dell'Argentina iniziano le prime rivolte antispagnole - al 1898, quando la Spagna perde le ultime colonie (Portorico, Cuba e le Filippine), tutti i territori ispanofoni diventano indipendenti e i nuovi Stati nazionali sono il risultato di una suddivisione più amministrativa che geografica: i quechua si trovarono ad essere un po' peruviani, un po' boliviani, un po' ecuatoriani e i mapuche si ritrovarono un po' cileni e un po' argentini e i guaraní un po' paraguayani e un po' boliviani… La lingua è uno dei maggiori strumenti di espressione dell'identità e anche i criollos (i latinoamericani bianchi di origine europea) erano alla ricerca della propria, per non parlare dei mestizos, risultati delle innumerevoli miscele di razze avvenute in quattro secoli di colonizzazione e del desiderio degli spagnoli di dar sfogo alla loro virilità, visto il ridottissimo numero di donne autorizzate alla traversata dell'Atlantico.
Il rischio di frammentazione linguistica era altissimo e c'era già l'esempio di ultraframmentazione delle lingue autoctone, che stava portandole verso una sorta di suicidio collettivo. Ecco allora che lo spagnolo diventa il collante dei nuovi Stati indipendenti dell'America Latina ispanofona e ha inizio un vero e proprio processo di castiglianizzazione. Innanzitutto si decide di liberare il campo da possibili retaggi coloniali e si ritorna a chiamarlo con il suo nome originale: castigliano, lingua originaria della Castiglia . Poi si cerca di fissare una norma per lo spagnolo americano: è vero che in quattro secoli di contatto con la ex-madre patria la lingua si era mantenuta sostanzialmente intatta nelle sue caratteristiche di fondo, ma si era anche evoluta in modo indipendente. C'erano parole che non avevano mai attraversato l'oceano Atlantico in nessuna delle due direzioni, come per esempio grifo [rubinetto], che non era mai arrivata in America, dove si usava e si usa llave, e forse in Spagna nessuno sapeva chi fosse uno zambo [persona di madre indigena e padre africano o viceversa]. C'erano pronomi che in Spagna suonavano obsoleti già nel XVII secolo ma che nelle zone più isolate dell'America ispana sono attivi ancora oggi, come per esempio l'uso del vos invece del tu come forma di trattamento informale. Insomma, se si voleva che il castigliano diventasse la lingua nazionale dei nuovi Stati indipendenti ispanofoni bisognava trovare una norma linguistica comune e condivisa e mettere da parte i regionalismi. Gli intellettuali latinoamericani diedero esempio di grande saggezza e lungimiranza quando smisero di cercare norme ortografiche proprie dello spagnolo americano per accettare quelle dello spagnolo peninsulare, anche se era chiaro a tutti che la pronuncia americana non si rifletteva nella trascrizione fonetica di tante parole. In realtà, la questione era più sociale che linguistica ed era legata al forte desiderio dei criollos di forgiare un'identità propria. Che doveva passare anche attraverso la lingua. Erano pochi rispetto al resto della popolazione, ma erano un gruppo socialmente forte ed ecco quindi che entrano in gioco fattori come il prestigio culturale e il potere economico e così il castigliano riduce sempre più il raggio d'azione delle lingue indigene e si diffonde a macchia d'olio in tutto il continente. La sua fortuna è stata proprio quella di aver saputo superare le radicalizzazioni e i purismi accademici e mantenersi unito nella diversità nel corso del tempo.
La consapevolezza di questa diversità è la sua più grande ricchezza: ogni ispanofono va fiero della propria varietà di castigliano, ma sa anche che non c'è una variante migliore di un'altra, né più pura, né più corretta; il panhispanismo valorizza la bellezza e la ricchezza di tutte e di ciascuna delle varianti, riconosce e consolida l'identità linguistica di tutti e di ciascuno dei suoi parlanti e li rende uniti sotto un unico grande ombrello e aperti alla conoscenza delle altre varietà proprio attraverso la lingua: poco importa se un camioncino è una furgoneta in Spagna, una ranchera in Perù, Ecuador e Venezuela, un guayín a Città del Messico, un pand in Guatemala, un pikap a Santo Domingo, un utilitario in Cile e Uruguay, una chivita a Panamà, una guagua a Santo Domingo, un panel a Cuba e in Messico, una estanciera in Argentina e una normalissima camioneta in altri Paesi: tutti gli ispanofoni sono coscienti delle differenze e saranno pronti a cercare sinonimi per farsi capire dal proprio interlocutore. E arricchiranno, strada facendo, il proprio repertorio lessicale personale. C'è un proverbio spagnolo che dice «Hablando se entiende la gente» e riassume in una pillola di saggezza popolare tutta una filosofia: gli ispanofoni si comprendono reciprocamente spiegando ciò che vogliono dire attraverso la loro stessa lingua. Una lingua, dunque, la cui diffusione esponenziale negli ultimi anni sembra aver seguito un percorso che non risponde al criterio dell'asservimento linguistico al Paese economicamente più forte, ma che è da un lato frutto di un'attenta politica linguistica e, dall'altro, è direttamente proporzionale ad un'espansione di tipo demografico legata ai flussi migratori e all'alto indice di natalità dei latinoamericani. La Spagna non è il Paese più ricco d'Europa e neppure nessun paese ispanofono latinoamericano può definirsi una potenza economica, eppure lo spagnolo è la seconda lingua più parlata negli Stati Uniti, con circa 40 milioni di parlanti, che non rientrano di certo nella fascia più abbiente di popolazione né sono l'unico gruppo di immigrati. E anche in Europa i latinos sono tanti, tantissimi e hanno capito - per fortuna - che la loro non è una lingua di seconda categoria. E così, con un savoir faire tutto latino, i nuovi immigrati imparano come meglio possono la lingua del Paese che li accoglie e si preoccupano che i loro figli la imparino molto meglio di loro, ma il loro cuore batte in castigliano. E questo orgoglio linguistico trasuda e si impregna ovunque vadano: negli Stati Uniti il trend è cambiato e sono in forte aumento gli anglos che parlano e/o studiano lo spagnolo e in Italia, per prendere un esempio che ci tocca più da vicino, lo spagnolo è entrato di gran carriera perfino nelle scuole elementari, e nelle università tiene testa all'inglese come lingua straniera più scelta dagli studenti. Non è più la lingua di un impero, né la lingua dei più ricchi, ma corre di bocca in bocca, carica di quella forza che solo la inmensa minoría dei suoi parlanti può darle.

Alicia Miramundos, viaggiatrice instancabile e curiosa, ispanista per passione e per professione, vive e lavora a Milano. Racconta i luoghi che ha visto nell’intento di trasmetterne l’essenza e lo spirito

     
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