Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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La forza dell'inmensa
minoria dei parlanti Cinque
secoli di lingua spagnola Dalla
penisola iberica alle Americhe, la vitalità moderna e popolare
del castigliano. di Alicia Miramundos |
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Si chiama castigliano ma in Castiglia, sua terra di origine,
conta poco più di due milioni e mezzo di parlanti; e anche se si sceglie
di chiamarla spagnolo non bisogna dimenticare che è la lingua
materna solo del 67% degli spagnoli perché si è abituata a convivere
con il catalano, il basco e il galiziano, lingue nazionali sancite
dalla Costituzione del 1978.
Nonostante questo, il rapporto 2009 di Ethnologue colloca il
castigliano - o spagnolo che dir si voglia - al secondo posto dopo
il cinese nella classifica delle lingue più parlate al mondo, con
329 milioni di parlanti madrelingua, un milione in più rispetto all'inglese.
È chiaro che se si tiene conto anche delle persone che parlano l'inglese
come seconda lingua il numero di anglofoni è superiore. Se poi si
pensa alla diffusione dell'istruzione in lingua inglese a livello
mondiale, questi dati sembrano ancora più relativi, nonostante l'interesse
verso lo spagnolo sia in continuo aumento, come dimostrano il suo
recente inserimento come seconda lingua obbligatoria nelle scuole
elementari brasiliane e il fiorire di corsi e cattedre di lingua spagnola
negli Stati Uniti e in Europa.
Il merito più grande di questa sua forte presenza nel mondo è tutto
dei suoi parlanti, da un lato all'altro oceano Atlantico. Se da un
lato gli spagnoli negli ultimi vent'anni hanno portato avanti, con
la nascita dell'Instituto Cervantes nel 1991, un intenso lavoro
istituzionale volto a promuovere la diffusione della lingua all'estero,
dall'altro i latinoamericani hanno dato inizio a un vero e proprio
processo di “esportazione” linguistica verso gli Stati Uniti e l'Europa.
Insomma lo spagnolo, oggi più che mai, viaggia con la sua gente, che
ora non è più alla ricerca di terre o mercati da conquistare, bensì
di lavoro e condizioni di vita migliori. E, finalmente, grazie al
lavoro congiunto della Real Academia Española de la Lengua
e di tutte le Academias de la Lengua Española d'oltremare si
inizia a riconoscere allo spagnolo americano quella dignità culturale
che fino a non molti anni fa sembrava essere prerogativa dello spagnolo
peninsulare.
Ma come si è arrivati fin qui? Nel 1492, quando Cristoforo Colombo
arriva ai Caraibi, la Spagna sta affacciandosi a un periodo di tale
splendore culturale ed economico da essere ricordato come il Secolo
d'Oro (1550-1650). Grazie a una oculata politica dinastica, la Corona
spagnola era padrona di mezza Europa e il patrocinio della spedizione
colombiana avrebbe reso la Castiglia padrona anche di buona parte
del subcontinente americano con il nulla osta del papa Alessandro
VI. E, sempre nel 1492, uno studioso dell'università di Salamanca,
Antonio de Nebrija, scrive la prima Grammatica della lingua
castigliana. Quando si sente la necessità di codificare le norme di
una lingua significa che la sua diffusione orale tra la popolazione
è già un dato di fatto e servono regole che la fissino nelle sue forme
scritte, proprio per risolvere oscillazioni e dubbi ortografici, lessicali,
morfologici e sintattici. Il dotto salmantino, nella prefazione della
Grammatica, scrive che «siempre la lengua fue compañera
del imperio» nella speranza che con lo spagnolo succedesse quanto
era accaduto con la diffusione del latino nei territori conquistati
dai romani. Quello che era forse solo un suo desiderio personale si
rivelò quasi una predizione scaramantica. Chi mai avrebbe potuto immaginare
che l'impero di Carlo V (1516-1558), forse il re meno spagnolo che
la Spagna aveva avuto fino a quel momento - era nato e cresciuto nelle
Fiandre e parlava poco e male il castigliano -, sarebbe stato proprio
il trampolino di lancio della lingua dall'altra parte dell'Atlantico?
Inoltre, nel 1492 si conclude il lungo processo di Riconquista
dei territori della penisola iberica occupati dagli arabi sin dal
711 d.C. I Re Cattolici Isabella di Castiglia e Fernando di Aragona,
nonni materni di Carlo V, volevano uno Stato unitario la cui identità
poggiava su due principi: una sola lingua e una sola religione.
Ma perché, tra i molti dialetti che si parlavano nella penisola iberica
scelsero proprio il castigliano?
La Castiglia di quel tempo era molto più estesa di quella attuale
e, oltre ai territori di Castilla-León e Castilla-La Mancha, comprendeva
parte della Cantabria e della Rioja. Già dal Medio Evo era una zona
di intensi scambi, soprattutto legati al commercio della lana, e il
gran viavai di persone provenienti da zone diverse creò la necessità
di comunicare in modo efficace: il dialetto castigliano fu particolarmente
aperto alle innovazioni, alle semplificazioni e iniziò a essere parlato
e compreso da un numero sempre maggiore di persone; fu così che la
sua zona di diffusione si ampliò e quella dei dialetti delle zone
limitrofe si ridusse.
Nel 1492, dunque, il castigliano era, di fatto, la lingua più parlata
della penisola iberica, anche se c'erano ancora molte differenze interne.
E il castigliano era anche l'unica lingua che conoscevano i conquistadores
spagnoli che arrivarono in America. La maggior parte di loro proveniva
dall'Andalusia e dall'Estremadura e quindi la prima varietà di castigliano
che si diffuse nel Nuovo Mondo fu quella meridionale. Erano in pochi
e parlare la stessa lingua era un modo per rinfrancare la propria
identità ispanica in uno spazio sconosciuto. Che senso avrebbe avuto
sottolineare le diversità regionali quando tutto intorno si parlavano
lingue incomprensibili? Molto più semplice livellarsi e sentirsi tutti
spagnoli e uniti nell'affrontare le avversità - anche sociali e psicologiche
- che l'impresa americana implicava.
La Corona si arrogava il diritto di autorizzare le spedizioni dei
conquistadores; in cambio chiedeva un quinto delle terre e
delle ricchezze conquistate e l'obbligo di evangelizzarne gli abitanti.
Ben presto si rese conto che i territori d'oltreoceano erano molto
più grandi del previsto e fu necessario mandare funzionari che controllassero
l'operato dei conquistadores. In America arrivarono dunque
due grandi categorie di ispanofoni: da un lato i conquistadores
e i coloni, che parlavano una varietà meridionale e più popolare di
castigliano, e dall'altro gli amministratori della Corona e i funzionari
ecclesiastici, che parlavano e scrivevano una variante colta che si
rifaceva alla norma di Toledo. Queste due varietà di castigliano si
trovarono di fronte a moltissime lingue autoctone tra cui il taíno,
il maya-quiché, il náhuatl, il quechua, l'aymara,
il guaraní e il mapuche... Oggi possiamo dire che se
alcune lingue indigene sono sopravvissute è anche grazie ai frati
missionari (gesuiti soprattutto, ma anche domenicani e francescani)
i quali capirono che il processo di cristianizzazione poteva avvenire
solo se avessero potuto impartire il catechismo nelle lingue dei nativi.
Per tutto il periodo coloniale, il numero di ispanofoni in America
Latina fu sempre molto basso in proporzione al numero di abitanti
dei territori conquistati.
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In meno di un secolo, dal 1810 - quando nel nord dell'Argentina iniziano
le prime rivolte antispagnole - al 1898, quando la Spagna perde le
ultime colonie (Portorico, Cuba e le Filippine), tutti i territori
ispanofoni diventano indipendenti e i nuovi Stati nazionali sono il
risultato di una suddivisione più amministrativa che geografica: i
quechua si trovarono ad essere un po' peruviani, un po' boliviani,
un po' ecuatoriani e i mapuche si ritrovarono un po' cileni
e un po' argentini e i guaraní un po' paraguayani e un po'
boliviani… La lingua è uno dei maggiori strumenti di espressione dell'identità
e anche i criollos (i latinoamericani bianchi di origine europea)
erano alla ricerca della propria, per non parlare dei mestizos,
risultati delle innumerevoli miscele di razze avvenute in quattro
secoli di colonizzazione e del desiderio degli spagnoli di dar sfogo
alla loro virilità, visto il ridottissimo numero di donne autorizzate
alla traversata dell'Atlantico.
Il rischio di frammentazione linguistica era altissimo e c'era già
l'esempio di ultraframmentazione delle lingue autoctone, che stava
portandole verso una sorta di suicidio collettivo. Ecco allora che
lo spagnolo diventa il collante dei nuovi Stati indipendenti dell'America
Latina ispanofona e ha inizio un vero e proprio processo di castiglianizzazione.
Innanzitutto si decide di liberare il campo da possibili retaggi coloniali
e si ritorna a chiamarlo con il suo nome originale: castigliano, lingua
originaria della Castiglia . Poi si cerca di fissare una norma per
lo spagnolo americano: è vero che in quattro secoli di contatto con
la ex-madre patria la lingua si era mantenuta sostanzialmente intatta
nelle sue caratteristiche di fondo, ma si era anche evoluta in modo
indipendente. C'erano parole che non avevano mai attraversato l'oceano
Atlantico in nessuna delle due direzioni, come per esempio grifo
[rubinetto], che non era mai arrivata in America, dove si usava e
si usa llave, e forse in Spagna nessuno sapeva chi fosse uno
zambo [persona di madre indigena e padre africano o viceversa].
C'erano pronomi che in Spagna suonavano obsoleti già nel XVII secolo
ma che nelle zone più isolate dell'America ispana sono attivi ancora
oggi, come per esempio l'uso del vos invece del tu come
forma di trattamento informale. Insomma, se si voleva che il castigliano
diventasse la lingua nazionale dei nuovi Stati indipendenti ispanofoni
bisognava trovare una norma linguistica comune e condivisa e mettere
da parte i regionalismi. Gli intellettuali latinoamericani diedero
esempio di grande saggezza e lungimiranza quando smisero di cercare
norme ortografiche proprie dello spagnolo americano per accettare
quelle dello spagnolo peninsulare, anche se era chiaro a tutti che
la pronuncia americana non si rifletteva nella trascrizione fonetica
di tante parole. In realtà, la questione era più sociale che linguistica
ed era legata al forte desiderio dei criollos di forgiare un'identità
propria. Che doveva passare anche attraverso la lingua. Erano pochi
rispetto al resto della popolazione, ma erano un gruppo socialmente
forte ed ecco quindi che entrano in gioco fattori come il prestigio
culturale e il potere economico e così il castigliano riduce sempre
più il raggio d'azione delle lingue indigene e si diffonde a macchia
d'olio in tutto il continente. La sua fortuna è stata proprio quella
di aver saputo superare le radicalizzazioni e i purismi accademici
e mantenersi unito nella diversità nel corso del tempo.
La consapevolezza di questa diversità è la sua più grande ricchezza:
ogni ispanofono va fiero della propria varietà di castigliano, ma
sa anche che non c'è una variante migliore di un'altra, né più pura,
né più corretta; il panhispanismo valorizza la bellezza e la
ricchezza di tutte e di ciascuna delle varianti, riconosce e consolida
l'identità linguistica di tutti e di ciascuno dei suoi parlanti e
li rende uniti sotto un unico grande ombrello e aperti alla conoscenza
delle altre varietà proprio attraverso la lingua: poco importa se
un camioncino è una furgoneta in Spagna, una ranchera
in Perù, Ecuador e Venezuela, un guayín a Città del Messico,
un pand in Guatemala, un pikap a Santo Domingo, un utilitario
in Cile e Uruguay, una chivita a Panamà, una guagua
a Santo Domingo, un panel a Cuba e in Messico, una estanciera
in Argentina e una normalissima camioneta in altri Paesi: tutti
gli ispanofoni sono coscienti delle differenze e saranno pronti a
cercare sinonimi per farsi capire dal proprio interlocutore. E arricchiranno,
strada facendo, il proprio repertorio lessicale personale. C'è un
proverbio spagnolo che dice «Hablando se entiende la gente»
e riassume in una pillola di saggezza popolare tutta una filosofia:
gli ispanofoni si comprendono reciprocamente spiegando ciò che vogliono
dire attraverso la loro stessa lingua. Una lingua, dunque, la cui
diffusione esponenziale negli ultimi anni sembra aver seguito un percorso
che non risponde al criterio dell'asservimento linguistico al Paese
economicamente più forte, ma che è da un lato frutto di un'attenta
politica linguistica e, dall'altro, è direttamente proporzionale ad
un'espansione di tipo demografico legata ai flussi migratori e all'alto
indice di natalità dei latinoamericani. La Spagna non è il Paese più
ricco d'Europa e neppure nessun paese ispanofono latinoamericano può
definirsi una potenza economica, eppure lo spagnolo è la seconda lingua
più parlata negli Stati Uniti, con circa 40 milioni di parlanti, che
non rientrano di certo nella fascia più abbiente di popolazione né
sono l'unico gruppo di immigrati. E anche in Europa i latinos
sono tanti, tantissimi e hanno capito - per fortuna - che la loro
non è una lingua di seconda categoria. E così, con un savoir faire
tutto latino, i nuovi immigrati imparano come meglio possono la lingua
del Paese che li accoglie e si preoccupano che i loro figli la imparino
molto meglio di loro, ma il loro cuore batte in castigliano. E questo
orgoglio linguistico trasuda e si impregna ovunque vadano: negli Stati
Uniti il trend è cambiato e sono in forte aumento gli anglos
che parlano e/o studiano lo spagnolo e in Italia, per prendere un
esempio che ci tocca più da vicino, lo spagnolo è entrato di gran
carriera perfino nelle scuole elementari, e nelle università tiene
testa all'inglese come lingua straniera più scelta dagli studenti.
Non è più la lingua di un impero, né la lingua dei più ricchi, ma
corre di bocca in bocca, carica di quella forza che solo la inmensa
minoría dei suoi parlanti può darle. Alicia
Miramundos, viaggiatrice instancabile e curiosa, ispanista per passione
e per professione, vive e lavora a Milano. Racconta i luoghi che
ha visto nell’intento di trasmetterne l’essenza e lo spirito |
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