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Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati. Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata - e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il vino, il rugby e il viaggio.

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I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto di Samuel Cogliati
Viaggiare per lavoro: vita da frequent flyer

La solitudine del duty free
35.000 miglia sopra le nuvole.

di Lucia Del Chiaro

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Esistono al mondo lavori di ogni tipo. Dai più terribili e duri ai più facili e leggeri, da quelli di fatica a quelli sedentari. Ognuno ha vantaggi e svantaggi, ci sono impiegati di banca che invidiano contadini, contadini che invidiano impiegati di banca, insegnanti che vorrebbero andare in ferie quando vogliono e non quando chiudono le scuole, ingegneri che vorrebbero avere due mesi di vacanza d’estate come i loro figli.
Il mio lavoro è legato a un trolley, a un passaporto, a una borsa col computer dentro.
Il mio lavoro è viaggiare da un continente all’altro, restare tre giorni e ripartire.
E di quel continente aver assaporato l’aria, annusato il cibo, sentito i colori e visto i profumi. Perché anche i sensi si mescolano durante quei viaggi ultrarapidi.
Il mio lavoro è fatto di check in, di duty free, di business lounge, di coffee break e di tutto il resto del vocabolario “inglese business”.

Dopo il primo anno di vita viaggiante ho ricevuto a casa le stimmate del viaggiatore: incastonata come un gioiello mi è arrivata dentro una scatola la mia tessera frequent flyer. Avere la carta frequent flyer vuol dire aver volato in un anno solare per più di 35.000 miglia (56.327 chilometri: più di un giro intorno al mondo, l’equatore ne misura 40.075) sempre con la stessa compagnia, oltre ai viaggi fatti con altre.
Vuol dire aver trascorso in un aeroporto il tempo necessario per vedere tutti i cucchiaini con sopra la porta di Brandeburgo, gli orsetti col grembiulino con scritto “Oktoberfest”, i poggia-collo della Samsonite, le prese internazionali per collegarsi alla rete elettrica dalla Repubblica Ceca al Canada, le borse da 1.000 euro e le penne da 3.000. I duty free condividono lo stesso odore di migliaia di spruzzi su strisce di carta che le commesse fanno per farti annusare Dior, Armani, Chanel e tutto diventa un unico, grande odore globale: l’odore di duty free, il mix perfetto fra tutti i profumi del mondo, il cuoio delle valigie costose e il brillare degli orologi, il cui odore è lieve e impercettibile.
Essere frequent flyer vuol dire aver assaggiato tutti i possibili panini, aver testato tutte le macchinette del caffè, aver provato a farsi un tè con acqua troppo calda e bicchierini di carta troppo fragili e aver commiserato i fumatori rinchiusi nelle loro cabine speciali.

Si raccoglie più giornali di quanti si riesca a leggerne durante il viaggio e ci si sente in colpa di quella informazione mancata, per quella lingua studiata poco e che vorresti sapere. Si gira con una zavorra di carta bianca e nera, ci si sporca le mani dell’inchiostro dell’Herald Tribune, di Die Zeit, di Le Monde, e si guarda quelli con la zavorra rosa del Wall Street Journal con un pochino di commiserazione, come se fossero avidi uomini d’affari e invece tu, che viaggi esattamente come loro, nel sedile accanto al loro, per fare un lavoro quasi identico al loro, pretendi ancora un pochino di tempo per leggere la recensione di un film o la striscia di Calvin e Hobbes.
Essere frequent flyer vuol dire avere una tesserina di plastica, fatta come una carta di credito, che marca le valigie e che dice al personale dell’aeroporto “questa vive qui”.
La business lounge è rifugio, salvezza e sconforto di ogni viaggiatore dotato di senno: internet, da mangiare, da bere, un giornale italiano e comodi divanetti su cui aspettare che ti chiamino perché parte il volo. Questo si fa in una lounge: si aspetta di essere chiamati a uscirne. Quando chiamano il volo è un sollievo, in un lounge non si è quasi mai con qualcuno, si è soli. Trecento persone sole che piluccano le stesse olive, si versano la stessa birra e si chiedono tutte contemporaneamente quanto ancora dovranno sopportare di stare soli in mezzo a tutta quella gente.
Gli italiani risolvono il problema attaccandosi al telefono e chiamando casa. Fanno sapere agli altri che loro ce l’hanno qualcuno a casa che li aspetta, non viaggiano per il mondo perché non hanno mogli o fidanzate, no, viaggiano per dovere, ma non perché non hanno di meglio da fare. Portano la maglia ITA-LIA (la scritta sta metà da una parte della cerniera e metà dall’altra), gli orologi per presbiti con i numeri che si leggono da venti metri, parlano fortissimo e ti fanno un po’ vergognare di essere italiana.

foto di Lucia Del Chiaro

In genere, parto dalla Germania, dove vivo e lavoro. Da Francoforte o da Monaco di Baviera. Preferisco Monaco, anche se Francoforte è più grande, o forse, proprio per quello. Come quelli che amano vivere nelle piccole città, dove tutti si conoscono, io amo gli aeroporti che conosco a memoria, dove so dove trovare un libro interessante, dove il signore dell’assistenza un giorno è stato gentile con me, dove mi hanno perso meno volte la valigia, dove esiste un bar italiano in cui fanno il caffè buono e il tipo parla napoletano forse per contratto. Da Monaco o da Francoforte parto per l’India o per gli Stati Uniti, a momenti alterni: a volte un Paese “emergente” può lavorare molto meglio del più grande Paese industrializzato del mondo, dipende da che cosa si cerca.

Una volta in India
Si prende un taxi: si chiamano tuk tuk e sono Api Piaggio, solo riadattate e costruite in India. Si fa testamento e si spera nella legge delle sardine che stanno in branco per avere meno possibilità di essere mangiate da un predatore: “Con tutta questa gente perché dovrebbe succedere un incidente proprio a me?”
E poi si va al lavoro, si stringono mani e si ripassa di nascosto i biglietti da visita per non dimenticare il nome di nessuno. Dopo il ristorante, di corsa all’aeroporto.
Anche se a volte gli imprevisti capitano, come un sabato sera, ad Ahmanebad, quando sulla strada dell’aeroporto c’era molta gente intorno a un bellissimo cavaliere che montava un altrettanto bel cavallo. Insieme al cavaliere, un bambino rideva felice.
Era un matrimonio. Lo sposo va a prendere la sposa a cavallo, circondato dai membri della sua famiglia e dagli amici che gli fanno festa. Una banda suona per lui e degli altoparlanti mandano musica in ogni direzione.
Chiedo se mi posso fermare a fare delle foto, e tutti sono felici di farsi fotografare, ma, soprattutto, sono felici di essere lì, di accompagnare l’amico “all’altare” e di ballare e saltare. In un secondo, sono circondata da gente che mi prende le mani, me le alza, mi fa saltare e ballare insieme a loro. A turno facciamo dei cerchi, la gente ci entra dentro e gira con noi. Dopo poco, vedo anche il mio collega francese e la sua cravatta rosa. Eccoci qua, stranieri a ballare in un matrimonio. La gente ci chiede di dove siamo, rido perché quando dico “Italia” tutti ridono e parlano di calcio, quando il mio collega dice “Francia” non sanno dove sia.

Quando si torna dall’India si ha la valigia puzzolente di incenso, perché se ne è comprato troppo e le mutande e i calzini e i maglioni puzzano di incenso, da togliere il respiro, da far svenire i cani antidroga e da fare in modo che l´India resti per lo meno un pochino sulla pelle, a ricordarti che ci sei stato e che eri proprio tu a ballare in mezzo a sconosciuti durante un matrimonio, a guardare con il naso in su una scimmia scendere da un albero di un’aiuola in mezzo al traffico, i pappagalli sul filo del telefono come da noi i passeri, le donne microscopiche asfaltare strade con la cesta del catrame sulla testa.

Lamerica
A volte capita di partire da Monaco, l’appuntamento col collega è sull’aereo perché tanto avete i posti accanto e uno arriva da Dresda e l’altro da Firenze. Invece tu sei seduto, il posto accanto è ancora vuoto e l’aereo parte, il collega è bloccato chissà dove, il telefono è spento e devi essere in North Carolina il giorno dopo, ma sei solo, improvvisamente solo e per tutto il viaggio studi anche quello che non dovevi fare tu, e poi il collega arriva, in albergo, il mattino dopo, sconvolto perché ha viaggiato tutta la notte e allora si va, si conoscono i John e i Larry, si vedono i campi da baseball dalla superstrada e i pali del telefono fatti di legno e le macchine enormi e ci si rende conto che si è in America, nella profonda provincia americana, con le chiese con la scritta al neon, la bandiera in giardino, le sedie a dondolo davanti alla porta.
Ma quando te ne rendi conto è già il giorno dopo, e si riparte, e allora confidi nel benedetto duty free americano, per comprare una cosa da portare agli amici “dall’America” perché l’albergo è davanti a un McDonald’s e accanto ha solo il negozio di donuts e il pollo fritto del Kentucky.
Ma non ci sono molte possibilità in un duty free di un aeroporto americano: buste di caramelle grandi il triplo che da noi, barrette di Mars lunghe il doppio, foto di gente dai denti perfetti e tutti uguali.
Si torna a casa e tutto sembra piccolo, vecchio e bello.

Poi a volte c’è la grande città. Chicago, Illinois. Si arriva all’aeroporto O’Hare e si prende uno di quei taxi lunghissimi. Il tassista è del Ghana, armeno, russo, cinese ed è negli Usa da due, tre, vent’anni ma ti dice sempre la stessa cosa: “I am American”.
E la grande città è grande davvero, e la piccola europea si perde fra i piani degli edifici giganti e vengono in mente solo domande stupide da fare al tassista: “Ma come fate a guardare fuori dalla finestra al quarantesimo piano?”. La notte è una notte vera, il vento è vero e la gente è enorme, ride e mangia, mangia e mangia.
Poi si torna a casa di nuovo, senza aver visto molto, solo il tragitto dall’hotel all’azienda e ritorno e qualche piccola fuga la sera dopo cena fingendo un sonno che non esiste.

Lucia Del Chiaro vive a Dresda. Biologa di formazione, lavora in un’azienda farmaceutica e per lavoro gira il mondo

     
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