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Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati. Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata - e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il vino, il rugby e il viaggio.

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I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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Confini / 5: il carcere visto da dentro

La mia vita era bella davvero
Intervista con Marco e Andrea, in carcere da tre anni. Due esistenze completamente cambiate. E che pensano sempre al futuro. Sempre.

di Giulia Pepe

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Siamo in una biblioteca. Tavoli per leggere, scaffali ricolmi di libri etichettati. Tutto normale. Eppure per entrare qui ho dovuto richiedere un permesso, lasciare il mio cellulare fuori e aspettare davanti almeno a cinque porte blindate, sbarre e chiavistelli che si aprono con chiavi enormi. Per non parlare dei bibliotecari, vero motivo per cui mi trovo qui: due detenuti della casa circondariale di Monza.
Marco e Andrea - nomi di fantasia per rispettare il loro anonimato - hanno rispettivamente 43 e 36 anni. Ammetto che sono un po’ intimorita, e all’inizio preferisco fare domande di routine, anche se loro due fanno di tutto per mettermi a loro agio. E sono davvero due perfetti “padroni di casa”.

Da dove venite?
Marco: «Io sono di Bollate».
Andrea: «Io di Milano».

Da quanto siete in carcere?
M.: «Da un anno».
A.: «Io da 2».

Per quanto ancora dovete scontare la pena?
M.: «Mi aspettano ancora 3 anni e 4 mesi circa».
A.: «Me ne mancano 2».

Per quale reato siete qui?
M.: «Io sono un ex tossicodipendente. Sono stato arrestato perché mi hanno trovato con della droga».
A: «Armi, detenute illecitamente. Avevo un’agenzia di sicurezza, per questo le tenevo».

Avreste mai pensato di finire in galera?
A.: «Io non me l’aspettavo. Per molti anni tutto è andato benissimo».
M.: «Sei libera di non crederci ma un paio di settimane prima del mio arresto ho iniziato a sognare di essere in carcere. Una specie di sogno premonitore. Però non è così strano visto che il mio mestiere era essere tossicodipendente».

È la prima volta?
M.: «No, sono stato in tre carceri dieci anni fa; però non in Italia. Sono stato detenuto in Spagna».
A.: «Io sono stato prima a San Vittore».

Si possono fare paragoni?
M.: «Non ci sono paragoni. Il carcere in Spagna è molto più umano. Qui c’è una forte limitazione, lì ci sono più attività e durano tutto il giorno. Insomma si vive la detenzione in maniera meno spiacevole».
A.: «San Vittore è un carcere di passaggio, non è detto che le persone partecipino ad attività».

Ma il carcere di Monza funziona bene?
M.: «Tutto sommato non possiamo lamentarci, anche se non è perfetto. Certo con la biblioteca la nostra situazione è migliorata molto, almeno due ore al giorno sappiamo cosa fare».

Come mai avete scelto l’attività in biblioteca?
M.: «Fin da piccolo ho sempre avuto sete di conoscenza. Ora sfrutto l’occasione per leggere e imparare più cose possibili. Ultimamente ho iniziato ad appassionarmi alla filosofia. Leggo circa cinque libri al mese: di tempo qui c’è n’è tanto».

Come state vivendo questa esperienza?
A.: «Uno il carcere lo vive come vuole. Io sono tranquillo, non ho fatto del male a nessuno fuori. La mia situazione economica non è disastrosa, anche se ho perso tutto entrando in prigione. Però chi ha problemi fuori li trascina dentro e così vedi persone che sembrano dei morti viventi».

Ma la detenzione è utile?
M.: «Per punire il reato sì, non si possono lasciare i criminali in giro. E ad esempio a me i colloqui con il Sert del carcere sono serviti per guarire dalla tossicodipendenza. Ma per rieducare, la prigione non serve. Almeno per come sono organizzati i nostri penitenziari. Se uno in carcere non può mettere da parte qualche soldino quando uscirà sarà costretto a delinquere di nuovo, è una cosa logica. Ma in realtà io penso che i detenuti facciano comodo».

In che senso?
M.: «Ovvio: noi diamo lavoro a un sacco di persone. Poliziotti, educatori, ditte, ecc... Fa comodo avere un gran numero di persone nei penitenziari».

Avevi la sensazione che in Spagna fosse diverso?
M.: «Scherzi? Tantissimo. Lì i carcerati avevano una certa autonomia. Iniziavano a costruirsi un futuro in prigione, anche perché molte attività erano autogestite o comunque organizzate in cooperazione con i detenuti stessi. In Italia molte volte non si rispetta l’articolo 1 dell’ordinamento penitenziario, che sottolinea il valore rieducativo della pena».

È un problema così sentito quello dei soldi?
A.: «Sì. Durante la detenzione non hai soldi in mano. Poi c’è chi è fortunato come noi, che ha le famiglie che mandano denaro. Con quello puoi avere una vita più dignitosa».
M.: «Ad esempio mia sorella mi porta 200 euro al mese, questo mi basta. Con quelli quando ci sono da compilare i moduli per le liste della spesa posso comprare qualcosa in più. Poi ci si organizza con i compagni di cella. In questo modo possiamo cucinare qualcosa di buono. Io sono il “cuoco” di cinque celle».

E chi non ha questi soldi?
M.: «Si accontenta di quello che gli danno».

Quanti siete in cella?
M.: «Io sono in infermeria, quindi le nostre celle sono da due».
A.: «Noi siamo in 5 ma la stanza è grande».

Sono pulite?
A.: «In carcere si diventa quasi maniacali per la pulizia, non essendoci molto altro da fare. E poi la cella è casa tua, alla fine».

Com’è la convivenza con i compagni?
M.: «Dipende. Si vive bene se le persone con cui stai hanno un minimo di intelligenza. Il problema però è che qui c’è gente con un quoziente intellettivo proprio basso. Mi fanno arrabbiare quelli che stanno in carcere e non conoscono neanche i loro diritti».

C’è unione tra italiani e stranieri?
A.: «C’è tolleranza ma non unione. Ognuno sta per i fatti suoi. Non esistono celle miste perché si è troppo diversi culturalmente e rischiano di esserci casini».
A.: «Però, dài, queste sono le domande che hai scritto. Non vuoi farci altre domande, qualche tua curiosità più personale?»
M.: «So che dovresti essere tu a fare le domande ma io vorrei sapere perché ci stai facendo quest’intervista. Hai detto che è un giornale online, giusto? Perché parlate del carcere? È la prima volta che ne vedi uno? Come ti è sembrato quello di Monza? L’hai visitato?»

Sono spiazzata. Per un momento invertiamo i ruoli. Io rispondo, spiego, temo di dire cose che non siano apprezzate. Arrivo a parlare di quello che farò “da grande”. Mai come in quel momento avrei voluto usare il mio registratore, perché continuare un’intervista dovendo prendere nota di quello che mi dicono «fa troppo compito in classe», scherzano Marco e Andrea. Però si ricomincia.

Siete sposati?
M.: «No».
A.: «No. E non abbiamo figli, il che rende la detenzione meno dura».

Vorreste una famiglia?
A.: «Non è una cosa che desidero così tanto».
M.: «Io sì, vorrei una moglie e dei figli».

Temi che il carcere possa essere un marchio che non ti permetterà di avere in futuro relazioni personali affettive?
M.: «Ormai ho imparato a fregarmene di quello che pensa la gente. Devo dar conto solo alla mia famiglia. Certo, i pregiudizi ti vengono sbattuti in faccia appena esci. Ma mi preoccupa di più il pregiudizio nel mondo del lavoro».

Problema “intimità”: in carcere non c’è nessuna possibilità di incontrare le proprie compagne. Questo rende più dura la detenzione?
M.: «Per degli uomini adulti stare a lungo lontani dalla propria donna è dura. E anche chi non ha la ragazza ne sogna una. Su questo i penitenziari italiani sono indietrissimo. In Spagna i detenuti potevano stare sei ore al mese in una stanza con le loro compagne. E in alcuni penitenziari l’ora d’aria si faceva con le detenute. Potevano nascere dei rapporti già durante il carcere».

Quali sono gli effetti di questa proibizione?
M.: «Negare un affetto così intimo significa incattivire le persone».

Però almeno i colloqui sono sufficienti?
M.: «Sì, quelli con i familiari sì. Io vedo mia sorella due volte al mese e mi basta. A 43 anni non voglio ancora pesare troppo su di lei».
A.: «Se avessimo dei figli fuori probabilmente useremmo di più questa opportunità. Per ora non mi va di farmi vedere dalla mia famiglia troppo spesso, anche perché non è che c’è poi molto da raccontare».

E i vostri amici?
M.: «Ho fatto richiesta per vedere un mio carissimo amico ma ancora non so nulla. In genere è difficile ottenere permessi. Pensa che a Barcellona poteva venire a trovarmi un mio ex compagno di cella».
A.: «Il carcere una cosa buona l’ha fatta. Con la detenzione ho potuto fare una scrematura di amici. Molti di quelli che fuori avevano mangiato anche con i miei soldi non si sono più fatti sentire. Altri, alcuni dei quali mi hanno davvero sorpreso, mi sono stati vicino. Però non ho molta voglia di vederli ora».

Perché, ti vergogni?
A.: «Un po’ sì. Ma perché non vedrebbero la stessa persona che conoscevano fuori. Non ho la coscienza sporca per il reato che ho commesso. Per il lavoro che facevo avere delle armi in più era necessario. Posso aggiungere una cosa?»

Certo.
A.: «Quando sei dentro ti accorgi che in Italia regna l’ingiustizia. Abbiamo una classe politica di delinquenti che in carcere non ci vanno solo perché sono ricchi e potenti. E qui ci siamo noi poveracci».
M.: «Andrea, ti ricordi quello che era dentro per un tentato furto di bicicletta? Mentre persone con i soldi che però hanno commesso reati molto più gravi magari il carcere lo vedono solo per un paio di mesi e poi scontano la pena ai domiciliari. A questo punto sarebbe più onesto scrivere questa frase nei tribunali: “La legge è uguale per tutti, ma non tutti sono uguali davanti alla legge”».

Stare in carcere inasprisce?
M.: «Diciamo che non diventi un duro come quelli dei film americani. Però certo che ti metti addosso una corazza, cerchi di difenderti».
A.: «Sì comunque la tv dà un’immagine strana dei carcerati. Non siamo dei violenti, anzi alcuni qui sono proprio degli zombi».
M.: «Ma dài Andrea, dimmi: se ti devi difendere non lo fai? A volte càpita di dover fare i gradassi».

Si può avere paura qui?
M.: «A volte sì».
A.: «Sì, però io ad esempio non ho paura adesso, ma per il dopo».

Pensate mai al futuro?
M.: «Certo, in ogni momento».
A.: «Sì perché penso che sarà difficile ripartire da zero. Io avevo una vita splendida, una vita sociale invidiabile. Ora dovrò ricostruire tutto. Però sono fiducioso».

Siete pentiti?
A.: «No perché non ho fatto del male a nessuno. Mi dispiace solo per la mia famiglia perché ha dovuto subire l’umiliazione. Vedendoli reagire così male li ho capiti».
M.: «Cos’è il pentimento? È inutile piangere sul latte versato».

Che cosa vi manca di più della vita fuori?
A.: «A me manca tutto. La mia vita era bella davvero».
M.: «La musica».

Giulia Pepe studia Lettere moderne all’università Statale di Milano. Collabora con il quotidiano Il Giorno e con il periodico Il Diario del Nordmilano, occupandosi soprattutto di eventi culturali e sociali

     
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