Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
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I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto di Paolo Tedeschi |
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Guevara e la Storia
Quando ritrovarono il "Che"
Da Milano a Vallegrande, sulle orme delle
"reliquie" del Guerrillero Heroico. di
Giorgio Oldrini |
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La notizia me l'aveva data Osvaldo “Chato” Peredo, in visita a Milano
a metà giugno del 1997: «Guarda che i cubani a Vallegrande stanno
trovando le ossa di Che Guevara». E Chato era uno dei più informati
al mondo su tutto quello che riguarda il Che. Infatti Osvaldo è il
fratello dei due luogotenenti boliviani di Guevara. Coco Peredo era
caduto in combattimento pochi giorni prima del Che, Inti era sopravvissuto,
aveva continuato la guerriglia ed era stato a sua volta ucciso qualche
mese più tardi. In quel tempo, Osvaldo era a Mosca a studiare medicina
all'università per stranieri Patrice Lumumba. Tornò in Bolivia e tentò
una ripresa della guerriglia nella zona di Teoponte, ma fu alla fine
costretto a fuggire in Cile e a Cuba.
Non è l'unico legame del Chato con il Che. C'è stata, è noto, una
“maledizione” di Guevara che ha colpito quasi tutti coloro che hanno
partecipato alla sua cattura e uccisione. Sono moltissimi i morti
tra coloro che hanno avuto a che vedere con la fine del Guerrillero
Heroico. Incidenti, attentati, malattie fulminanti hanno causato
la morte dell'allora presidente-dittatore boliviano René Barrientos,
del suo vice generale Ovando, di tanti ufficiali o spie che avevano
portato la Cia e l'esercito a mettere fine alla vita leggendaria del
Che. Il caso più curioso fu quello dell'agente dei servizi segreti
statunitensi Felix Rodriguez, un cubano americano che aveva diretto
le operazioni per conto della Cia e che, tornato a Miami dopo la fine
di Guevara, era stato colto da attacchi fortissimi di asma, lui che
non ne aveva mai sofferto. Come se la malattia che aveva perseguitato
il Che fin da piccolissimo fosse passata per una arcana magia nel
corpo del suo cacciatore.
Ma nella fine di una delle vittime della “malediciòn” aveva avuto
un ruolo importante Chato Peredo. Il colonnello Roberto Quintanilla
aveva diretto per parte boliviana l'attacco finale a Guevara e qualche
mese dopo aveva ucciso Inti Peredo. Come per testimoniare al mondo
la sua vittoria, si era fatto fotografare davanti al cadavere del
successore boliviano del Che. Poi, quando aveva capito che per lui
la situazione si faceva difficile, Quintanilla si era fatto inviare
come console ad Amburgo, lontano dalla Bolivia e dall'America latina.
Non aveva fatto i conti con la compagna di Inti, una boliviana figlia
di un tedesco compromesso col nazismo, fuggito in America latina dopo
la fine della Guerra mondiale. Monica Ertl nel 1971 aveva 31 anni
e si trasferì ad Amburgo con l'idea di vendicare il Che e Inti. A
marzo arrivò a Milano Chato Peredo e si incontrò sotto la Madonnina
con Monica. Giangiacomo Feltrinelli fornì loro un'automobile e una
pistola e i due raggiunsero Amburgo. La ragazza si fece ricevere da
Quintanilla e gli spiegò che era la responsabile di un gruppo folkloristico
tedesco che voleva fare una tournée in Bolivia. Era bella Monica ed
ammiccante con il console che la invitò a ripassare. La ragazza tornò
un paio di volte e quando il colonnello abbandonò ogni prudenza, lei
estrasse la pistola e gli sparò tre colpi a bruciapelo, uccidendolo.
Gli uffici del consolato comunicavano con l'abitazione della famiglia
e la moglie di Quintanilla, sentendo gli spari, corse in inutile soccorso
al marito, ma in tempo per strappare a Monica la parrucca e la pistola.
In strada Chato Peredo attendeva sull'automobile di Feltrinelli la
Ertl, e insieme fuggirono. Qualche tempo dopo, Monica tornò in Bolivia,
dove fu attratta in una trappola dal boia nazista Klaus Barbie, che
era in esilio a La Paz, e uccisa. Il suo cadavere non fu mai restituito
alla famiglia.
Dunque, quando Osvaldo Peredo a metà del giugno del 1997 mi disse
«Guarda che i cubani stanno trovando le ossa di Guevara a Vallegrande»,
corsi da Giuliano Ferrara che era il direttore di Panorama,
settimanale per cui lavoravo, e gli dissi: «Posso scriverti un articolo
su come stanno cercando e trovando il cadavere del Che in Bolivia».
Ferrara, che ha un gusto raffinato per le notizie, mi guardò: «Se
sei sicuro di quello che dici non scrivere nulla, prendi un aero e
vai a vedere».
Arrivai a Santa Cruz de la Sierra dove trovai un veneziano che era
professore di ecologia all'università e mi ospitò qualche giorno tra
enormi ragni e serpenti infiniti, andai a trovare Chato alla sede
della Fundaciòn Guevara di cui era presidente, poi noleggiai una automobile
per uno dei viaggi più straordinari della mia vita. Da Santa Cruz
a Vallegrande ci sono circa 250 chilometri, ma solo una settantina
allora erano asfaltati. Il resto era una strada di montagna di continui
tornanti, con un fondo di una terra rossa e dura che alla fine mi
aveva impastato i capelli al punto che quando avevo tentato di pettinarmi,
il pettine si era rotto. Piccoli gruppi di case, sparse lungo il cammino,
molte volte con una sorta di cimitero famigliare accanto, cactus e
caldo che obbliga a viaggiare con i finestrini dell'auto spalancati.
Vallegrande era un villaggio di 7mila abitanti, costruito attorno
ad una piazza rettangolare, progettata secondo le proporzioni stabilite
dalla Ley de las Indias dell'Impero spagnolo, sovrastata da
montagne altissime. C'erano allora solo due alberghi, per usare un
termine ottimistico. Io trovai posto in uno col gabinetto in un cortile
sterrato e un numero inusitato di scarafaggi che giravano tra i quattro
letti che costellavano l'enorme stanza spoglia in cui dormivo solo.
Andai subito a cercare i cubani, grazie anche alla mia conoscenza
di molti dirigenti dell'isola e alla presentazione del Chato. Erano
lì da qualche mese, il capo del gruppo era il medico Jorge Gonzales,
e con lui lavoravano l'antropologo Hector Soto, la storica Maria del
Carmen Ariet, l'archeologo Roberto Rodriguez e tre geofisici, Jose
Luis Cuevas, Carlos Sacasas e Noel Perez. «Sono arrivati qui con strumenti
e con un metodo di lavoro che da noi erano sconosciuti», mi aveva
subito spiegato Chato Peredo. La loro era una corsa contro il tempo,
perché ad agosto avrebbe preso possesso della carica di presidente
della Repubblica il generale Hugo Panzer, in passato golpista e in
quel momento eletto alla prima carica dello Stato. E tutti sapevano
che Panzer avrebbe impedito di continuare il lavoro dei cubani.
In realtà, la ricerca del cadavere di Ernesto Che Guevara aveva avuto
una svolta un paio d'anni prima, nel novembre del 1995, quando il
generale boliviano in pensione Mario Vargas Salinas aveva dichiarato:
«Il corpo del Guerrigliero dopo essere stato pulito e fotografato
nella lavanderia dell'ospedale di Vallegrande fu seppellito insieme
a sei suoi compagni che erano morti in quei giorni, in una fossa scavata
col bulldozer vicino al piccolo campo di aviazione, dalla parte del
cimitero». Per quelle sue dichiarazioni Vargas Salinas ha subìto procedimenti
disciplinari, accuse, insulti in Bolivia e fuori. Molti sono stati
in seguito i tentativi di depistare le ricerche. Ancora il 27 giugno
1997, il giorno prima della scoperta del corpo, un altro generale
boliviano in pensione, Gary Prado, aveva dichiarato ai giornali: «E'
inutile farsi illusioni. Il corpo del Che Guevara dopo essere stato
fotografato nella lavanderia dell'ospedale di Vallegrande, fu bruciato
e le sue ceneri disperse sulla montagna con un elicottero. Posso dirlo,
perché io c'ero in quei momenti». Ma non vi era solo una opera di
disinformazione e una “difesa” del cadavere del Che da parte della
destra boliviana e della Cia. Un gruppo di abitanti di Vallegrande
avevano dichiarato agli stessi ricercatori cubani: «Il cadavere del
Guerrigliero? Lo legarono a un elicottero e se lo portarono via gli
americani. Lo abbiamo visto noi di persona». Forse queste dichiarazioni
erano frutto di equivoci dovuti al trambusto di quei giorni in cui
il piccolo villaggio sulle Ande era diventato il centro della caccia
a uno degli uomini più ricercati nel mondo. O forse era solo un tentativo
di depistaggio dovuto al fatto che nel corso degli anni in quella
parte della Bolivia era nato un culto religioso attorno al Che e ai
suoi guerriglieri.
Proprio sulla piazza di Vallegrande c'era la Casa della Cultura. Presenza
in qualche modo strana in un villaggio montano, ma spiegabile con
la passione e la dedizione del suo presidente, il professor Adhemar
Sandoval che vi organizzava mostre di pittura e recite di artisti
locali e stranieri. Proprio da lui ero andato poche ore dopo essere
arrivato a Vallegrande. «Le coincidenze sono tante e apparentemente
incredibili - mi aveva detto sorprendendomi - Ma i fatti si ripetono.
Una donna mi aveva raccontato che un giorno il Che era passato di
fianco alla sua povera capanna insieme a un gruppo di guerriglieri.
Si era fermato a parlare con lei e a un certo punto aveva indicato
una roccia vicina. “Lì c'è acqua”, aveva detto Guevara. “Mai stata
acqua lì”, aveva ribattuto la contadina. Ma un paio di giorni dopo
improvvisamente la parete era crollata sotto la spinta di una nuova
sorgente d'acqua fresca». Avevo guardato incredulo Sandoval: «Mi stai
dicendo che faceva miracoli?» - «Qui lo dicono tutti e se un contadino
perde una mucca prega il Che perché la faccia tornare sana e salva».
Così nei tanti luoghi di quelle montagne in cui secondo le leggende
il corpo del Guerrigliero avrebbe dovuto essere sepolto, venivano
accese candele e deposti fiori. Molti dunque a Vallegrande speravano
che il corpo non fosse trovato o per lo meno che i cubani lo lasciassero
lì. Persino il consiglio comunale del paese aveva approvato un ordine
del giorno: «Si faccia quel che ha detto lo stesso Guevara: che sia
sepolto lì dove è morto, come ogni buon guerrigliero».
Un'aura di magia riempiva quei luoghi. I primi a riprendere la ricerca
dopo le dichiarazioni del generale Vargas Salinas erano stati alcuni
esperti argentini guidati dal dottor Alejandro Inchaurregui. Avevano
trovato una fossa comune con tre cadaveri di guerriglieri della colonna
Guevara, ma non il corpo del Comandante. L'unico identificato era
stato il boliviano Jaime Arana, “El Chapaco”, caduto qualche giorno
prima del Che. Gli altri due non erano stati riconosciuti e nell'attesa
che qualcuno ne rivendicasse i cadaveri, erano stati portati nella
cappella della chiesa principale, che i fedeli del paese chiamano
un po' pomposamente “la cattedrale”. Piano piano, quei poveri resti
di due guerriglieri senza nome sono diventati oggetti di culto. Nella
chiesa infatti, al contrario di quello che avviene spesso, non ci
sono reliquie di santi e dunque quei contadini di montagna hanno presto
adottato quei resti come fossero di qualche martire della cattolicità
e hanno cominciato a portare loro fiori, accendere candele, offrex
voto.
Qualche giorno prima della morte del Che, i militari boliviani avevano
catturato ferito un guerrigliero della colonna, “El Loro” Vazquez
Viana. Lo avevano caricato su un elicottero e lo avevano buttato giù
nella selva. Il fratello Jorge aveva iniziato appena possibile la
ricerca del cadavere del “Loro” per dargli sepoltura. Dopo mesi e
mesi di indagini era finalmente arrivato al luogo dove era morto il
fratello guerrigliero, ma non aveva avuto il coraggio di portarlo
via. Infatti il tumulo sotto cui era sepolto era diventato un luogo
di culto per gli indios della selva, che lo avevano coperto di fiori
e di offerte e lo veneravano come un dio venuto dal cielo. Jorge aveva
pensato che il cadavere del “Loro” stava meglio lì, tra i riti dei
nativi che in un cimitero normale.
La cattedrale di Vallegrande è presieduta da un Cristo nero, altra
stranezza in un Paese come la Bolivia dove la popolazione nera è praticamente
inesistente. «E' arrivato qui da Malta», mi ha spiegato Sandoval.
«Dall'isola del Mediterraneo era stato portato a Lima e da qui a Vallegrande,
che era la stazione di passaggio nel lungo cammino tra Sucre e Santa
Cruz». Si spiega in questo modo il fatto che Malta sia uno dei nomi
che più ricorrono in paese. Così si chiama la piazza principale dove
sorge la cattedrale, così l'ospedale.
Quando ho inviato il mio articolo a Panorama, in cui tra l'altro
raccontavo di questa aura di magia, il caporedattore con cui parlai,
che è molto cattolico, mi disse: «Complimenti per il pezzo, è molto
bello e non ho toccato quasi nulla di quello che hai scritto. Solo
ho smorzato un po' i toni miracolistici. Non vorrei che qualcuno pensasse
che il Che era un santo in gradi di fare miracoli».
A me era venuto in mente che molti anni prima, nel 1979, ero stato
uno dei primi al mondo ad intervistare il nicaraguese Ernesto Cardenal,
che allora era un sacerdote, un poeta e un guerrigliero. Tra l'altro
gli avevo chiesto di spiegare come era possibile per un prete essere
un guerrigliero. Lui, da sotto il suo eterno basco scuro, mi aveva
detto: «La Chiesa non ha mai condannato la guerra, non vedo perché
dovrebbe condannare la guerriglia. E del resto se è stato fatto santo
Luigi di Francia per avere guidato la crociata per riscattare il Santo
Sepolcro, dovrebbe essere fatto santo Che Guevara che è morto per
riscattare il corpo stesso di Cristo, i poveri». Ma il mio caporedattore
non conosceva Cardenal.
Fallito il tentativo degli argentini, a Vallegrande arrivarono i sette
cubani che applicarono un metodo scientifico alla ricerca. Ognuno,
in base alla sua specialità e alle sue conoscenze fece una mappa dei
luoghi dove ragionevolmente avrebbe potuto esserci la tomba del Che.
Poi il lavoro di ognuno fu sovrapposto a quello degli altri e ne uscirono
cinque punti probabili. La mattina del 28 giugno ero lì con i cubani
e una ruspa che scavava lentamente nel secondo dei luoghi probabili.
Alle 9 in punto, Jorge Gonzales cominciò a gridare all'operatore della
ruspa: «Ferma, ferma, ferma!». Scese nella buca e con le mani scavò
freneticamente attorno a quello che sembrava dall'alto un osso. Ben
presto liberò un cranio in parte danneggiato, dei denti, un omero.
Jorge cominciò a ridere e a piangere insieme, ad abbracciare Soto
e gli altri che erano lì. Poi si staccò da tutti e con un telefonino
chiamò l'Avana: «Comandante, li abbiamo trovati proprio dove pensavamo
che fossero».
Scesi verso la piazza de Malta e il mio albergo per scrivere. Vicino
alla cattedrale un'anziana mi guardò. «E tu da dove vieni?» mi chiese.
«Dall'Italia». - «E cosa ci fai qui?» - «Sono un giornalista e sono
venuto a vedere se trovano le ossa del Che». - «E le hanno trovate?»
- «Proprio adesso, vengo da lì». - «Lo sapevo - mi ha sorpreso l'anziana
-. Tra i cubani che lavorano c'è un nero, come il nostro Cristo. Lo
hanno portato apposta perché il Gesù di Malta li guidasse».
Giorgio Oldrini, giornalista professionista dal
1973, ha lavorato all’Unità (è stato corrispondente da Cuba e inviato
in America Latina per 8 anni), all’Ansa e a Panorama. Dal 2002 è
sindaco di Sesto San Giovanni, sua città d’origine |
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