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Il periodico
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foto di Paolo Tedeschi
Guevara e la Storia

Quando ritrovarono il "Che"
Da Milano a Vallegrande, sulle orme delle "reliquie" del Guerrillero Heroico.

di Giorgio Oldrini

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La notizia me l'aveva data Osvaldo “Chato” Peredo, in visita a Milano a metà giugno del 1997: «Guarda che i cubani a Vallegrande stanno trovando le ossa di Che Guevara». E Chato era uno dei più informati al mondo su tutto quello che riguarda il Che. Infatti Osvaldo è il fratello dei due luogotenenti boliviani di Guevara. Coco Peredo era caduto in combattimento pochi giorni prima del Che, Inti era sopravvissuto, aveva continuato la guerriglia ed era stato a sua volta ucciso qualche mese più tardi. In quel tempo, Osvaldo era a Mosca a studiare medicina all'università per stranieri Patrice Lumumba. Tornò in Bolivia e tentò una ripresa della guerriglia nella zona di Teoponte, ma fu alla fine costretto a fuggire in Cile e a Cuba.

Non è l'unico legame del Chato con il Che. C'è stata, è noto, una “maledizione” di Guevara che ha colpito quasi tutti coloro che hanno partecipato alla sua cattura e uccisione. Sono moltissimi i morti tra coloro che hanno avuto a che vedere con la fine del Guerrillero Heroico. Incidenti, attentati, malattie fulminanti hanno causato la morte dell'allora presidente-dittatore boliviano René Barrientos, del suo vice generale Ovando, di tanti ufficiali o spie che avevano portato la Cia e l'esercito a mettere fine alla vita leggendaria del Che. Il caso più curioso fu quello dell'agente dei servizi segreti statunitensi Felix Rodriguez, un cubano americano che aveva diretto le operazioni per conto della Cia e che, tornato a Miami dopo la fine di Guevara, era stato colto da attacchi fortissimi di asma, lui che non ne aveva mai sofferto. Come se la malattia che aveva perseguitato il Che fin da piccolissimo fosse passata per una arcana magia nel corpo del suo cacciatore.
Ma nella fine di una delle vittime della “malediciòn” aveva avuto un ruolo importante Chato Peredo. Il colonnello Roberto Quintanilla aveva diretto per parte boliviana l'attacco finale a Guevara e qualche mese dopo aveva ucciso Inti Peredo. Come per testimoniare al mondo la sua vittoria, si era fatto fotografare davanti al cadavere del successore boliviano del Che. Poi, quando aveva capito che per lui la situazione si faceva difficile, Quintanilla si era fatto inviare come console ad Amburgo, lontano dalla Bolivia e dall'America latina.
Non aveva fatto i conti con la compagna di Inti, una boliviana figlia di un tedesco compromesso col nazismo, fuggito in America latina dopo la fine della Guerra mondiale. Monica Ertl nel 1971 aveva 31 anni e si trasferì ad Amburgo con l'idea di vendicare il Che e Inti. A marzo arrivò a Milano Chato Peredo e si incontrò sotto la Madonnina con Monica. Giangiacomo Feltrinelli fornì loro un'automobile e una pistola e i due raggiunsero Amburgo. La ragazza si fece ricevere da Quintanilla e gli spiegò che era la responsabile di un gruppo folkloristico tedesco che voleva fare una tournée in Bolivia. Era bella Monica ed ammiccante con il console che la invitò a ripassare. La ragazza tornò un paio di volte e quando il colonnello abbandonò ogni prudenza, lei estrasse la pistola e gli sparò tre colpi a bruciapelo, uccidendolo. Gli uffici del consolato comunicavano con l'abitazione della famiglia e la moglie di Quintanilla, sentendo gli spari, corse in inutile soccorso al marito, ma in tempo per strappare a Monica la parrucca e la pistola. In strada Chato Peredo attendeva sull'automobile di Feltrinelli la Ertl, e insieme fuggirono. Qualche tempo dopo, Monica tornò in Bolivia, dove fu attratta in una trappola dal boia nazista Klaus Barbie, che era in esilio a La Paz, e uccisa. Il suo cadavere non fu mai restituito alla famiglia.

Dunque, quando Osvaldo Peredo a metà del giugno del 1997 mi disse «Guarda che i cubani stanno trovando le ossa di Guevara a Vallegrande», corsi da Giuliano Ferrara che era il direttore di Panorama, settimanale per cui lavoravo, e gli dissi: «Posso scriverti un articolo su come stanno cercando e trovando il cadavere del Che in Bolivia». Ferrara, che ha un gusto raffinato per le notizie, mi guardò: «Se sei sicuro di quello che dici non scrivere nulla, prendi un aero e vai a vedere».
Arrivai a Santa Cruz de la Sierra dove trovai un veneziano che era professore di ecologia all'università e mi ospitò qualche giorno tra enormi ragni e serpenti infiniti, andai a trovare Chato alla sede della Fundaciòn Guevara di cui era presidente, poi noleggiai una automobile per uno dei viaggi più straordinari della mia vita. Da Santa Cruz a Vallegrande ci sono circa 250 chilometri, ma solo una settantina allora erano asfaltati. Il resto era una strada di montagna di continui tornanti, con un fondo di una terra rossa e dura che alla fine mi aveva impastato i capelli al punto che quando avevo tentato di pettinarmi, il pettine si era rotto. Piccoli gruppi di case, sparse lungo il cammino, molte volte con una sorta di cimitero famigliare accanto, cactus e caldo che obbliga a viaggiare con i finestrini dell'auto spalancati.
Vallegrande era un villaggio di 7mila abitanti, costruito attorno ad una piazza rettangolare, progettata secondo le proporzioni stabilite dalla Ley de las Indias dell'Impero spagnolo, sovrastata da montagne altissime. C'erano allora solo due alberghi, per usare un termine ottimistico. Io trovai posto in uno col gabinetto in un cortile sterrato e un numero inusitato di scarafaggi che giravano tra i quattro letti che costellavano l'enorme stanza spoglia in cui dormivo solo.
Andai subito a cercare i cubani, grazie anche alla mia conoscenza di molti dirigenti dell'isola e alla presentazione del Chato. Erano lì da qualche mese, il capo del gruppo era il medico Jorge Gonzales, e con lui lavoravano l'antropologo Hector Soto, la storica Maria del Carmen Ariet, l'archeologo Roberto Rodriguez e tre geofisici, Jose Luis Cuevas, Carlos Sacasas e Noel Perez. «Sono arrivati qui con strumenti e con un metodo di lavoro che da noi erano sconosciuti», mi aveva subito spiegato Chato Peredo. La loro era una corsa contro il tempo, perché ad agosto avrebbe preso possesso della carica di presidente della Repubblica il generale Hugo Panzer, in passato golpista e in quel momento eletto alla prima carica dello Stato. E tutti sapevano che Panzer avrebbe impedito di continuare il lavoro dei cubani.

In realtà, la ricerca del cadavere di Ernesto Che Guevara aveva avuto una svolta un paio d'anni prima, nel novembre del 1995, quando il generale boliviano in pensione Mario Vargas Salinas aveva dichiarato: «Il corpo del Guerrigliero dopo essere stato pulito e fotografato nella lavanderia dell'ospedale di Vallegrande fu seppellito insieme a sei suoi compagni che erano morti in quei giorni, in una fossa scavata col bulldozer vicino al piccolo campo di aviazione, dalla parte del cimitero». Per quelle sue dichiarazioni Vargas Salinas ha subìto procedimenti disciplinari, accuse, insulti in Bolivia e fuori. Molti sono stati in seguito i tentativi di depistare le ricerche. Ancora il 27 giugno 1997, il giorno prima della scoperta del corpo, un altro generale boliviano in pensione, Gary Prado, aveva dichiarato ai giornali: «E' inutile farsi illusioni. Il corpo del Che Guevara dopo essere stato fotografato nella lavanderia dell'ospedale di Vallegrande, fu bruciato e le sue ceneri disperse sulla montagna con un elicottero. Posso dirlo, perché io c'ero in quei momenti». Ma non vi era solo una opera di disinformazione e una “difesa” del cadavere del Che da parte della destra boliviana e della Cia. Un gruppo di abitanti di Vallegrande avevano dichiarato agli stessi ricercatori cubani: «Il cadavere del Guerrigliero? Lo legarono a un elicottero e se lo portarono via gli americani. Lo abbiamo visto noi di persona». Forse queste dichiarazioni erano frutto di equivoci dovuti al trambusto di quei giorni in cui il piccolo villaggio sulle Ande era diventato il centro della caccia a uno degli uomini più ricercati nel mondo. O forse era solo un tentativo di depistaggio dovuto al fatto che nel corso degli anni in quella parte della Bolivia era nato un culto religioso attorno al Che e ai suoi guerriglieri.
Proprio sulla piazza di Vallegrande c'era la Casa della Cultura. Presenza in qualche modo strana in un villaggio montano, ma spiegabile con la passione e la dedizione del suo presidente, il professor Adhemar Sandoval che vi organizzava mostre di pittura e recite di artisti locali e stranieri. Proprio da lui ero andato poche ore dopo essere arrivato a Vallegrande. «Le coincidenze sono tante e apparentemente incredibili - mi aveva detto sorprendendomi - Ma i fatti si ripetono. Una donna mi aveva raccontato che un giorno il Che era passato di fianco alla sua povera capanna insieme a un gruppo di guerriglieri. Si era fermato a parlare con lei e a un certo punto aveva indicato una roccia vicina. “Lì c'è acqua”, aveva detto Guevara. “Mai stata acqua lì”, aveva ribattuto la contadina. Ma un paio di giorni dopo improvvisamente la parete era crollata sotto la spinta di una nuova sorgente d'acqua fresca». Avevo guardato incredulo Sandoval: «Mi stai dicendo che faceva miracoli?» - «Qui lo dicono tutti e se un contadino perde una mucca prega il Che perché la faccia tornare sana e salva».
Così nei tanti luoghi di quelle montagne in cui secondo le leggende il corpo del Guerrigliero avrebbe dovuto essere sepolto, venivano accese candele e deposti fiori. Molti dunque a Vallegrande speravano che il corpo non fosse trovato o per lo meno che i cubani lo lasciassero lì. Persino il consiglio comunale del paese aveva approvato un ordine del giorno: «Si faccia quel che ha detto lo stesso Guevara: che sia sepolto lì dove è morto, come ogni buon guerrigliero».

Un'aura di magia riempiva quei luoghi. I primi a riprendere la ricerca dopo le dichiarazioni del generale Vargas Salinas erano stati alcuni esperti argentini guidati dal dottor Alejandro Inchaurregui. Avevano trovato una fossa comune con tre cadaveri di guerriglieri della colonna Guevara, ma non il corpo del Comandante. L'unico identificato era stato il boliviano Jaime Arana, “El Chapaco”, caduto qualche giorno prima del Che. Gli altri due non erano stati riconosciuti e nell'attesa che qualcuno ne rivendicasse i cadaveri, erano stati portati nella cappella della chiesa principale, che i fedeli del paese chiamano un po' pomposamente “la cattedrale”. Piano piano, quei poveri resti di due guerriglieri senza nome sono diventati oggetti di culto. Nella chiesa infatti, al contrario di quello che avviene spesso, non ci sono reliquie di santi e dunque quei contadini di montagna hanno presto adottato quei resti come fossero di qualche martire della cattolicità e hanno cominciato a portare loro fiori, accendere candele, offrex voto.
Qualche giorno prima della morte del Che, i militari boliviani avevano catturato ferito un guerrigliero della colonna, “El Loro” Vazquez Viana. Lo avevano caricato su un elicottero e lo avevano buttato giù nella selva. Il fratello Jorge aveva iniziato appena possibile la ricerca del cadavere del “Loro” per dargli sepoltura. Dopo mesi e mesi di indagini era finalmente arrivato al luogo dove era morto il fratello guerrigliero, ma non aveva avuto il coraggio di portarlo via. Infatti il tumulo sotto cui era sepolto era diventato un luogo di culto per gli indios della selva, che lo avevano coperto di fiori e di offerte e lo veneravano come un dio venuto dal cielo. Jorge aveva pensato che il cadavere del “Loro” stava meglio lì, tra i riti dei nativi che in un cimitero normale.
La cattedrale di Vallegrande è presieduta da un Cristo nero, altra stranezza in un Paese come la Bolivia dove la popolazione nera è praticamente inesistente. «E' arrivato qui da Malta», mi ha spiegato Sandoval. «Dall'isola del Mediterraneo era stato portato a Lima e da qui a Vallegrande, che era la stazione di passaggio nel lungo cammino tra Sucre e Santa Cruz». Si spiega in questo modo il fatto che Malta sia uno dei nomi che più ricorrono in paese. Così si chiama la piazza principale dove sorge la cattedrale, così l'ospedale.
Quando ho inviato il mio articolo a Panorama, in cui tra l'altro raccontavo di questa aura di magia, il caporedattore con cui parlai, che è molto cattolico, mi disse: «Complimenti per il pezzo, è molto bello e non ho toccato quasi nulla di quello che hai scritto. Solo ho smorzato un po' i toni miracolistici. Non vorrei che qualcuno pensasse che il Che era un santo in gradi di fare miracoli».
A me era venuto in mente che molti anni prima, nel 1979, ero stato uno dei primi al mondo ad intervistare il nicaraguese Ernesto Cardenal, che allora era un sacerdote, un poeta e un guerrigliero. Tra l'altro gli avevo chiesto di spiegare come era possibile per un prete essere un guerrigliero. Lui, da sotto il suo eterno basco scuro, mi aveva detto: «La Chiesa non ha mai condannato la guerra, non vedo perché dovrebbe condannare la guerriglia. E del resto se è stato fatto santo Luigi di Francia per avere guidato la crociata per riscattare il Santo Sepolcro, dovrebbe essere fatto santo Che Guevara che è morto per riscattare il corpo stesso di Cristo, i poveri». Ma il mio caporedattore non conosceva Cardenal.

Fallito il tentativo degli argentini, a Vallegrande arrivarono i sette cubani che applicarono un metodo scientifico alla ricerca. Ognuno, in base alla sua specialità e alle sue conoscenze fece una mappa dei luoghi dove ragionevolmente avrebbe potuto esserci la tomba del Che. Poi il lavoro di ognuno fu sovrapposto a quello degli altri e ne uscirono cinque punti probabili. La mattina del 28 giugno ero lì con i cubani e una ruspa che scavava lentamente nel secondo dei luoghi probabili. Alle 9 in punto, Jorge Gonzales cominciò a gridare all'operatore della ruspa: «Ferma, ferma, ferma!». Scese nella buca e con le mani scavò freneticamente attorno a quello che sembrava dall'alto un osso. Ben presto liberò un cranio in parte danneggiato, dei denti, un omero. Jorge cominciò a ridere e a piangere insieme, ad abbracciare Soto e gli altri che erano lì. Poi si staccò da tutti e con un telefonino chiamò l'Avana: «Comandante, li abbiamo trovati proprio dove pensavamo che fossero».
Scesi verso la piazza de Malta e il mio albergo per scrivere. Vicino alla cattedrale un'anziana mi guardò. «E tu da dove vieni?» mi chiese. «Dall'Italia». - «E cosa ci fai qui?» - «Sono un giornalista e sono venuto a vedere se trovano le ossa del Che». - «E le hanno trovate?» - «Proprio adesso, vengo da lì». - «Lo sapevo - mi ha sorpreso l'anziana -. Tra i cubani che lavorano c'è un nero, come il nostro Cristo. Lo hanno portato apposta perché il Gesù di Malta li guidasse».

Giorgio Oldrini, giornalista professionista dal 1973, ha lavorato all’Unità (è stato corrispondente da Cuba e inviato in America Latina per 8 anni), all’Ansa e a Panorama. Dal 2002 è sindaco di Sesto San Giovanni, sua città d’origine

     
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