Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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Ciclismo d'inizio
secolo: la più grande famiglia del pedale Monsieur
Pélissier, c’est fini I tre
fratelli prodigio del Tour “ancien régime” e gli ultimi giorni
del campionissimo. di Simone Basso |
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I Pélissier possono essere considerati, ancora oggi, il nucleo famigliare
con più talento espresso in un singolo sport.
I due fratellini di Henri che scelsero l'agonismo crebbero nell'esempio
del fuoriclasse di casa e furono campioni di vaglia.
Francis (1894-1959) accompagnò Plume nella fase matura della
sua carriera e diventò, oltre che un eccezionale luogotenente, un
cacciatore di classiche. Fondista adatto ai massacri dell'epoca, per
esempio l'interminabile Bordeaux-Parigi, fu protagonista di tantissime
corse: fioore all'occhiello del suo palmares, tre titoli nazionali
e una Parigi-Tours. Si aggiudicò anche l'unica corsa che sfuggì al
fratello campionissimo: il Grand Prix Wolber, la competizione che
in quel periodo fu considerata come il mondiale ufficioso. Appesa
la bici al chiodo, Francis divenne direttore sportivo e talent-scout:
la pepita più lucente che scoprì fu il grande Jacques Anquetil (1934-1987),
portato giovanissimo al professionismo. Charles (1903-1959),
il più giovane, raggiunse i due qualche anno più tardi, al tramonto
dell’èra di Henri; fu un passista veloce di altissimo livello, capace
anche (nelle giornate di ispirazione massima) di andare forte sulle
salite. Definito il “Brummel in bicicletta” o “Valentino” per l’eleganza
e lo stile, lanciò la moda dei guanti bianchi e dei tre Pélissier
fu sicuramente il più amato dal pubblico. Il suo nome si legò indissolubilmente
al Tour de France 1930, quando sgominò il campo aggiudicandosi ben
otto tappe: in quella edizione, la prima corsa con le squadre nazionali,
fu anche prezioso scudiero del compagno André Leducq (1904-1980),
vincitore a Parigi. Il suo record di otto frazioni sarà eguagliato,
nella storia della Grande Boucle, solamente da Eddy Merckx (1974)
e Freddy Maertens (1976); ma nel 1930 Charles rischiò di andare oltre,
piazzandosi sette volte secondo e tre terzo... Le volate con Raffaele
Di Paco, grande sprinter italiano, furono un altro Leitmotiv
di quei Tour eroici dei forzati della strada; un’epica forgiata, involontariamente,
dalle parole e dall’esempio del fratello Henri.
Nel 1924, Albert Londres, il padre del moderno giornalismo
d’inchiesta, seguì come corrispondente il Tour de France: digiuno
di ciclismo, si appassionò a quello spettacolo vergando uno dei documenti
essenziali nella storia della cronaca sportiva. Descrisse la follia
di quell’evento, parteggiando empaticamente con i corridori. Reduce
da un reportage sui carcerati, trovò una similitudine perfetta tra
i condannati ai lavori forzati e gli “sfregaselle”: «Ci sono artisti
da circo che ingoiano mattoni e altri che mandano giù rane vive. Ho
visto fachiri scolarsi del piombo fuso. Tutte persone normali. I veri
pazzoidi sono alcuni esaltati, partiti il 22 giugno da Parigi, per
abbuffarsi di polvere...».
L’apice di quella suggestione fu l’incontro di Londres con Henri
Pélissier, la mattina del suo ritiro a Cherbourg. Al solito Ficelle
trovò da dire con un giudice di gara: il regolamento, a dir poco sadico,
non permetteva agli atleti di indossare due maglie una sopra l’altra
e Plume (altro nomignolo di Pélissier, cfr. Possibilia n.4),
all’ispezione del maresciallo Baugé, reagì inalberandosi. Raggiunse
furioso il fratello Francis e Ville in fuga e propose a entrambi il
ritiro. Dopo l’ammutinamento, seduti nel bistrot della stazione, il
reporter raccolse le parole (leggendarie) di Henri... «Voi
non avete idea di che cosa sia il Tour de France... È un calvario.
Anzi peggio, perché la Via Crucis non ha che quattordici stazioni,
mentre il nostro ne ha quindici. Soffriamo dalla partenza all’arrivo.
Volete vedere come andiamo avanti? Aspettate...». E dalla borsa estrasse
una fiala: «Ecco, questa è cocaina per gli occhi. Questo è cloroformio
per le gengive...». «E le pillole? Volete vedere anche le pillole?
A voi, signori! Eccole qui!». Ne tirarono fuori tre scatole a testa.
«E non ci avete ancora visto all’arrivo, al bagno. Concedetevi questo
spettacolo. Ripuliti dal fango, siamo bianchi come sudari, svuotati
dalla diarrea, strabuzziamo gli occhi. La notte, nelle nostre camere,
non dorme nessuno e siamo presi quasi dal ballo di San Vito...».
Il pezzo scritto per Le Petit Parisien, «Les forçats de la
route», fece epoca e confermò il genio di Londres, l’uomo che viaggiò
per il mondo raccontandone trame segrete e soprusi. Un destino tragico
accomunò il giornalista con i due eroi di quelle Grande Boucle, Pélissier
e Bottecchia, ovvero la morte prematura e misteriosa. Nel 1932 al
rientro dalla Cina, sulla Georges-Philipar, morì nell’incendio della
nave: nessuno mai lesse la sua ultima inchiesta, che avrebbe potuto
rivelare novità clamorose sui traffici di oppio in quella zona.
L’anno prima del «Tour de souffrance», Henri Pélissier concluse la
sue collezione con il gioiello mancante: la maglia gialla finale.
A supportarlo tra le fila dell’Automoto con Francis anche un italiano
dalle grandi doti atletiche: Ottavio Bottecchia, un friulano che pedalava
per allontanare la miseria nera e che divenne la sorpresa di quella
edizione. Rimase in testa alla classifica generale fino alla decima
tappa, vestendo (primo tricolore a compiere l’impresa) le maillot
jaune. Nella Gap-Briancon, sull’Izoard, Plume però si involò
e chiuse i conti con quel gregario minaccioso e soprattutto con la
Storia. Fu l’epilogo romantico che lo confermò come il più grande
talento di quell’evo ciclistico; purtroppo, non avendo altro orizzonte
che quello della strada polverosa vista dal sellino, continuò ancora
a correre per tanti, troppi, anni. Henri fu patetico nell’abusare
del proprio mito, rimandando ad libitum il confronto con la
vita di tutti i giorni. Quando ciò avvenne si materializzarono tutti
gli spettri, le ombre più cupe del suo carattere: malgrado la ricchezza
ottenuta pedalando, diede sempre l’impressione di un’infelicità cosmica,
leopardiana. Nella villa in stile normanno a Fourcherolles, nei pressi
di Parigi, affrontò senza successo i suoi mostri personali: come un
protagonista maledetto di Gide, ma eterosessuale, fu coinvolto in
vicende poco edificanti.
Qualche tempo dopo il suicidio della prima moglie, Léonie, Pélissier
si legò con una donna, Camille Tharault, di vent’anni più giovane.
La condotta tutt’altro che irreprensibile dell’ex campione portò Miette
- questo il nomignolo dell’amante di Ficelle - all’esasperazione:
durante un alterco, Henri la ferì con un coltello; rifugiatasi in
camera da letto, Camille prese da un cassetto la pistola. Ancora sanguinante
in volto, quando Pélissier l’attese in cucina minacciandola con la
lama, premette il grilletto. Cinque colpi di arma da fuoco, il 1 maggio
1935, uccisero a 46 anni quello che Léo Breton (allora presidente
della Federazione francese) definì il più grande corridore di tutti
i tempi.
Il puzzle funereo si completò con la camera ardente di Henri, allestita
nello stesso vano dove, tre anni prima, la moglie si suicidò. Il dì
dopo, Paris- Soir titolò: «La tragica fine di Henri Pélissier
non ha sorpreso nessuno a Dampierre. “Se avessi avuto dei soldi l’avrei
lasciato tempo fa”, ha detto ieri l’assassina». Il 26 maggio 1936,
al processo, dopo che Camille dichiarò che il suo gesto fu di autodifesa,
la giuria la condannò a solamente un anno di condizionale, di fatto
assolvendola.
La vicenda pazzesca del primogenito dei Pélissier ebbe così il finale
più eccessivo e teatrale; in perfetto stile con la vita esagerata
che condusse. Non ci sarà mai più nessuno, nella storia dello sport,
come Henri Pélissier: l’essenza brutalmente poetica di Plume rimarrà
un unicum, un sole nero che abbaglia gli occhi di chi lo guarda.
«Ich bin das letzte Biest am Himmel
Ich bin das letzte Biest am Himmel
das letzte Biest am Himmel
...Halt mich fest
in der Morgendämmerung»
(Einstürzende Neubauten, 1985) N.B..: La Excelsior 1881
ha stampato in italiano il reportage di Albert Londres sul Tour 1924,
consigliatissimo. Simone Basso tra
le troppe cose che fa per sopravvivere è un cantante, aka Enomìsossab,
ed ogni tanto scrive di sport e di musica... |
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