di Samuel Cogliati
agosto 2019
Sono andato al supermercato. Nel semi-deserto ferragostano ci sono stato costretto. Non è una notizia da prima pagina, ma per me che faccio normalmente la spesa tra mercato, acquisti diretti dai produttori agricoli e qualche negozio di quartiere, è sempre un’esperienza. Anzi, dato che sono andato in un grande supermercato, l’esperienza è stata ancora più intensa.
Più che di un’esperienza si è trattato in verità di un trauma, inaspettato, come ogni volta che metto piede nella grande distribuzione, per quanto io finga di esservi preparato. Un trauma ancora più grande, visto e considerato che il supermercato in questione mi dicono sia probabilmente il miglior marchio italiano.
Già l’impatto è difficile: la quantità di persone presenti – da credere che tutti i superstiti della città si siano dati appuntamento lì –, la temperatura polare dell’aria condizionata, il flusso ininterrotto e frenetico di consumatori intenti a fare slalom sulle tracce della miglior promozione, del miglior prezzo, della propria marca di pasta abituale, il tutto cercando di fare il prima possibile. Nel mezzo altri avventori invece pressoché immobili, fermi a considerare un’etichetta, o forse solo persi nel vuoto pneumatico.
Ancor più dell’impatto è però la sostanza a traumatizzare. In un supermercato gli oggetti superflui sono numerosi tanto quanto quelli utili, ed è falso sostenere che si resista facilmente al loro richiamo. In secondo luogo, gli articoli alimentari: le materie prime non lavorate sono minoranza – protagonisti sono i piatti pronti, i surgelati, le ricette elaborate, le preparazioni industriali. Ma anche nell’àmbito delle materie prime grezze (verdura, frutta, pesce, carne, farine…) non si sfugge al trauma: è pressoché impossibile acquistare alcunché sotto forma sfusa. Ogni alimento è avvolto in uno, due, tre, quattro imballaggi, spesso misti o complessi, in cui plastica e carta si compenetrano, talora in modo indistricabile. Quando non sono già imballati, è richiesto di imballarli per l’acquisto. Infine, il livello qualitativo medio è avvilente. Cercate uno yogurt bianco non zuccherato biologico non industriale: se non conoscete a memoria il reparto frigo l’operazione vi richiederà tempo e impegno nella ricerca; non necessariamente a buon fine.
Tutto questo fa apparire straordinariamente radical chic qualunque materia prima che dovrebbe essere ritenuta semplicemente ordinaria.
Il punto non è un dato di costume. Il problema è che un supermercato è il fedele riflesso del nostro modo di acquistare, che è il nostro modo di vivere, che è il nostro modo di pensare. E tutto questo ci sembra talmente normale da non indurre alcuna riflessione ai più. Abbiamo la benedizione di vivere in un paese dove quasi ovunque l’acqua del rubinetto è potabile, controllata, economica, abbondante; ma ci sfianchiamo a trascinare fin nelle nostre case acque “minerali” costose, imbottigliate in plastiche spesso non inerti, inquinanti per l’ambiente, onerose da produrre e da smaltire.
Continuando così non ce la faremo.