(fotografia © Samuel Cogliati)
Numero zero, l’ultimo romanzo del Professore, insegna molte cose
di Samuel Cogliati
giugno 2016
Non sono un grande lettore di narrativa, tanto meno di narrativa italiana. Non conosco neanche bene Umberto Eco. Ecco però che una splendida domenica maggiolina di pioggia mi ha offerto l’occasione di sfuggire alle tante, troppe vicende lavorative, per rifugiarmi – une fois n’est pas coutume – in un libro. Regalo della mia compagna per il mio ultimo compleanno trentenne, e relegato per mesi in un angolo della libreria. Perché? Perché, per quanto ne sapevo, il romanzo in questione parla di giornalismo, tema per me ostico in quanto portatore di un’appartenenza controvoglia. E poi perché, ovviamente, di Eco si è parlato molto nei mesi scorsi a causa della morte; il che genera in me un moto di spontaneo, snobistico rifiuto.
Ebbene, Numero zero (Bompiani, 2015) è un bel libro. Ma questo potrebbe anche essere abbastanza scontato. Meno scontato è che insegni molte cose, soprattutto per un romanzo.
Insegna molte cose della vita, a iniziare dal valore e dall’utilità di una sana rassegnazione; non disfattismo, ma rassegnazione, che non è immobilismo né nichilismo, ma probabilmente una virtù che, con il passare degli anni, è bene iniziare a frequentare. Eco tratta il tema con garbato e divertente cinismo, e ancora una volta rende virtuoso un atteggiamento che si tinge solitamente di negatività. È il libro perfetto per una lunga schiera di “perdenti”. Così spiega la cosa il Professore: «I perdenti, come gli autodidatti, hanno sempre conoscenze più vaste dei vincenti, se vuoi vincere devi sapere una cosa sola e non perdere tempo a saperle tutte, il piacere dell’erudizione è riservato ai perdenti. Più cose uno sa, più le cose non gli sono andate per il verso giusto» (p. 17). Che, detto da Eco, fa un po’ sorridere – ma lui è l’eccezione –, mentre quando uno ci si riconosce e vi riconosce il risultato di un misto di scelta e inettitudine, fa sorridere per altri motivi, e aiuta a riconciliarsi con sé e con il mondo.
Gli aspetti narrativi che colpiscono sono che il libro è un romanzo, ma potrebbe benissimo essere una storia vera. Quando hai lavorato per alcuni anni in una redazione, riconosci perfettamente ogni fatto e ogni logica di Numero zero, e non puoi che sorridere di nuovo. E questo è il segno della notevole maestria letteraria dell’autore. Infine, il groviglio “fanta-storico” costruito dal racconto è così plausibile da farti dubitare a più riprese che non si tratti di finzione, bensì di realtà. Altro motivo di divertimento.
Sul piano tecnico-linguistico, almeno due aspetti palesano la straordinaria padronanza che era di Umberto Eco.
Primo: nonostante gli argomenti talora un poco enciclopedici e complessi, la narrazione scorre con una sorprendente facilità (lo dice un lettore lentissimo). Eco applica infatti alla perfezione una delle sue convinzioni di base, che tutti dovremmo spudoratamente copiare: dire le cose in modo semplice ogni volta che è possibile. Virtù molto poco italiana. Si tratta di scelte lessicali, ma non solo, a partire da un dettame che elogiava un altro grandissimo della scrittura, Italo Calvino: la precisione.
Secondo: Eco riesce a far convivere nelle stesse pagine registro dotto e tono diretto, colloquiale, talora ruvido; e lo fa con naturalezza.
Terzo: il suo disinibito uso della punteggiatura (un aspetto generalmente sottovalutato). Di solito gli scriventi hanno due atteggiamenti nei confronti della punteggiatura: o l’ignorano (deliberatamente o per incompetenza), non rendendosi conto che un punto o una virgola possono cambiare il senso della frase; o ne fanno un uso ricercato, barocco e compiaciuto, appesantendo il flusso linguistico. Eco naturalmente non commette né l’uno né l’altro errore, ma è stupefacente constatare come privilegi ancora una volta chiaramente la semplicità: usa quasi solo punti e virgole, talvolta in modo che si potrebbe ritenere accademicamente improprio (vedi citazione sopra), ma con profonda economia e senza mai minare il significato. Questa è grandezza dello scrivere, ma si raggiunge, credo, solo con il tempo.