(fotografia © Samuel Cogliati)
Quando un vino non è buono, bisogna dirlo?
di Samuel Cogliati
aprile 2017
Giorno di Pasqua, ore 13,30. A tavola, la famiglia si appresta a celebrare il Cristo risorto con una lieta libagione. Tra le leccornie approntate per il fausto momento, alcune mezze bottiglie di champagne avanzate da una recente degustazione professionale.
Al vecchio di casa si propone un poco del nobile spumante d’Oltralpe. Gli si chiede se gli aggradi. Risponde di non sapere, che non ne ha mai gustato prima d’ora. Notasi che il vecchio di casa ha 93 anni. Gli si reitera la proposta. Egli assente. Assaggia, senza un cenno di qualsivoglia significazione. S’interpreta il suo silenzio come un benestare. Si procede con il prosieguo della colazione.
A un dato momento del pasto, il vecchio di casa chiede di comprendere meglio donde provenga il vino spumante che ha nel calice. Gli si spiega che è il frutto di precedenti degustazioni professionali destinate a un lavoro editoriale. Il vecchio di casa chiede lumi. Gli si illustrano i dettagli. Chiede anche dell’esito di tali degustazioni. Gli si riferisce che talune hanno dato esito confortante, talaltre no. L’anziano chiede: “E di quelli non buoni, scriverai che non sono buoni?”. Gli si risponde affermativamente. Segue un breve momento di silenzio. Poi replica: “Ma quello non lo venderà più, il suo vino”. Gli si spiega che il recensore in questione non è così influente, e che scarsi saranno i riscontri di ciò che egli riferirà.
Detto questo, per quanto totalmente digiuno dell’argomento, il vecchio di casa ha centrato il punto della questione: la responsabilità del recensore. Chi si pronuncia sulla bontà di un vino ha, tra le sue mani, anche una responsabilità di giudizio che ricade sul lavoro di un anno intero, se non più di uno, di un vignaiolo. Fatto spesso bellamente sorvolato dal recensore (ma non certo dal recensito). L’aspetto dirimente della faccenda – che rivela il buon senso novecentesco dell’osservazione – è che il problema non sussiste: nessun recensore o quasi, oggi, osa pronunciarsi ufficialmente e pubblicamente in senso negativo sull’oggetto della sua recensione. Il motivo è presto detto: molto più semplice sperare in una qualsivoglia connivente interessenza di un recensito felice, che dover difendere le ragioni di una recensione negativa, destinata a un lettorato disattento.