Doppia recensione. La Grande bellezza e la Bellezza grande di Sorrentino: due amanti del cinema dicono la loro sul tanto discusso film del regista napoletano.
di Samuel Cogliati e Igor Vazzaz
A uno non è piaciuto, all’altro sì. Uno critica la recitazione di Servillo, poco convincente e insufficiente per salvare il resto del film. L’altro avverte: “Non è La dolce vita”, ma d’altronde non ha mai preteso di esserlo, mentre Sorrentino è l’unico regista italiano degno di confrontarsi con i maestri del passato. Ecco due letture discordanti, ma entrambe sentite, dell’ultima opera del regista che non mette d’accordo i critici.
È ora che Toni Servillo si fermi un attimo. Non è certo in discussione il suo indiscutibile talento, ma “La grande bellezza” testimonia quanto i film inizino ad essergli tagliati e cuciti addosso, tralasciando troppi altri aspetti, e nella fiduciosa presunzione che la maestria del grande attore basti a risollevarne le sorti.
Che cosa abbia voluto dirci Paolo Sorrentino con il suo ultimo lungometraggio, non è dato sapere. Che la nostra società è in rapido e inarrestabile decadimento morale e creativo? Che nessuno ha ancora trovato una risposta più completa al senso della vita di quanto non possano dare le cose semplici? Che solo il gusto per il bello può salvarci? O l’opera vuole semplicemente essere un “affresco sociale”, omaggio a passate glorie cinematografiche?
A dire il vero, è il senso del film in sé a sfuggirci: 150′ di prolungato, a tratti asfissiante compiacimento estetico-fotografico (bello, non vi è dubbio!) e non molto altro. Qualche lampo di geniale polpa c’è: il biascichio partenopeo di un Servillo ebbro e tre o quattro sequenze di dialoghi impietosamente sarcastici, gustosissimi – si ride sul serio – e davvero ben riusciti. Il resto sono un Carlo Verdone trascinato a forza fuori dai suoi vieti cliché, una Sabrina Ferilli piovuta per caso, una fotografia e una regia esasperatamente espressionistiche, sullo sfondo di una Roma ovviamente struggente. Soggetto e costrutto non pervenuti, e un film nel più classico stile retorico italiano. Di questo andamento narrativo sincopato, fatto di commistioni oniriche e reali, e di flashback, ci stiamo sinceramente un po’ saturando.
Sì, il grande Servillo dovrebbe forse fermarsi un attimo, e magari fare un film all’estero, tra un po’ di tempo.
S.C.
Allucinatorio, musicale, ferino, satirico, e sempre, sempre toccato dal dio del cinema, quello che, alla seconda inquadratura o qualche fotogramma più in là, fa già gridare al grande film. Ironico che il miglior “fico del bigoncio” del nostro disastratissimo cinema (Monicelli ammoniva: non è – solo – arte , è industria) debba, da qualche titolo a questa parte, fronteggiare plotoni marziali di critici cui ancora s’ha da recidere il cordone ombelicale della trama, a rimproverargli, con diligente puntualità, le proprie insoddisfazioni, ignorando come la misura d’una valutazione estetica si calibri, anzitutto, col metro implicito dell’opera stessa.
Rassegniamoci, rassegnatevi: La grande bellezza non è La dolce vita. Altra Roma, altra Italia, altro mondo. E altre solitudini inquiete, frustrazioni sopite, fallimenti accolti col rossiniano cinismo d’un sorriso gettato sullo sprofondo d’una civiltà incapace di rappresentarsi e, finanche, implodere. C’è tanto Houellebecq in questo Sorrentino romano, nel disincanto del suo Jep Gambardella, nella tarlata tensione religiosa, nella pupazzata collettiva d’un mondo aduso a darsela a bere, fosse l’impegno posticcio d’una generazione fintorivoluzionaria o la più classica sòla spacciata per avanguardia. C’è tutto questo e ben altro, al di là del cast stellare e magistralmente diretto (il parametro: una Ferilli mai vista così intensa), della catarsi di dialoghi a tratti sin troppo perfetti: c’è il cinema. E, neppure per un istante, il cinema italiano di oggi. Sorrentino non è Fellini, che genio chi lo nota, ma è l’unico nostro autore contemporaneo che può stare su quel piano e questo ci pare davvero innegabile.
I.V.