di Samuel Cogliati

Qualcuno sosterrà che la globalizzazione sia un processo inevitabile, e che questo fenomeno ne faccia parte. Tuttavia, non riesco a trovare alcuna motivazione plausibile né condivisibile all’uso generalizzato dell’inglese in sostituzione dell’italiano. Qualche anno fa, l’intrusione del lessico anglosassone nella nostra lingua era limitato perlopiù ad alcune circostanze e a certi àmbiti, prevalentemente specialistici, legati allo sviluppo tecnologico. Una conseguenza dello strapotere statunitense in materia.
Su questa tendenza si è innestato l’utilizzo dell’inglese in chiave criptica: se uso un’espressione anglosassone al posto di una italiana, non solo ammanto il contenuto di un tono sostenuto, ma la rendo anche meno chiara, evanescente, interpretabile, camuffandola. Un esempio: conosco una persona che fa sostanzialmente il magazziniere, sulla cui firma aziendale si legge facility manager. Una mia ex compagna di scuola è divenuta Intl. PR Manager and Marketing Coordinator (tutto maiuscolo, e dove l’Intl. – potevamo farci mancare l’abbreviazione? – sta, immagino, per international). E scorrendo a caso biglietti da visita di italiani che lavorano in Italia, non mancano l’IT Specialist, il Wedding Planner, il Managing Director, il Wine bar & restaurant, il CEO, il Photographer, il Site Managing Director, il Brand Manager, l’Origination Manager, l’Art director, il Mail Artist and Creative, l’Head of marketing & Communication, persino il Life coach & map maker… Dubito che tutti costoro abbiano sistematici e quotidiani rapporti di lavoro con l’estero.
Il linguista Gaetano Berruto (Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, 1998) spiegava l’uso del gergo con il desiderio di sentirsi parte di una comunità ristretta e ben connotata, quanto con la necessità di non farsi capire dal “nemico”. Diamo per buono che si tratti dello stesso fenomeno, e che queste persone temano di sentirsi estromesse da una grandissima comunità.

È invece paradossale – e irritante – che istituzioni e mezzi di comunicazione di massa utilizzino in modo ormai smodato e gratuito lessico e frasario inglesi. Laddove esiste una corrispondente espressione italiana – quasi sempre – utilizzarla servirebbe solo a rendere più accessibile e comprensibile il contenuto. Invece, si continua serenamente a preferire spread a differenziale, a usare gap anziché scarto, spending review invece direvisione della spesa (se proprio non si vuole parlare di tagli), taste (visto che poi si sta parlando di made in Italy) al posto di gusto, loop anziché confusione, homeless piuttosto che senzatetto, deadline piuttosto chescadenza, eccetera eccetera.
Deprimente, poi, il dilagare di interi periodi o preposizioni inglesi su Facebook, da parte di utenti italiani che si rivolgono evidentemente ad altri utenti italiani. Sono ansiosi di farsi capire dal mondo intero? Improbabile. L’altro giorno, un mio interlocutore (italiano) parlava di me ad un suo interlocutore (italiano), mettendomi in copia ad una mail, in cui mi chiamava Mr. Cogliati. (A proposito, in Francia la mail si può anche chiamarecourriel, neologismo formato da courrier e mail).
Insomma: gli italiani stanno sempre più rinunciando a parlare in italiano con altri italiani. Perché? Per fingere di essere ciò che non sono? Per sfiducia in sé stessi?

Ciò che temo non si voglia comprendere, è che prediligere l’italiano anziché l’inglese nel linguaggio quotidiano non sarebbe né sussiegoso, né sciovinistico, né masochistico. Nelle situazioni internazionali esistono ancora serie figure professionali: traduttori e interpreti, spesso ben più competenti di noi nella padronanza di un’altra lingua. In altri casi, lungi da sottrarci opportunità – per esempio nel comunicare la tipicità italiana, un valore inestimabile anche a livello commerciale – la lingua nazionale ci darebbe degli strumenti in più. Pensate che un turista straniero attratto dall’enogastronomia italiana sia più incuriosito da un’“osteria con mescita” o da un “wine bar”?
Come fa notare lo storico della scienza Michel Serres, a proposito dell’introduzione dell’insegnamento in lingua inglese nella scuola superiore francese, se uno studente vuole imparare l’inglese, andrà probabilmente a Cambridge o negli Stati Uniti, non a Parigi o a Tolosa.
Peraltro, anche quando un termine non esiste in italiano – perché magari non esiste il concetto equivalente – rimane un’altra opportunità: il neologismo, ovvero creare una nuova parola. Cerebralismo? Niente affatto, anzi, linfa vitale per una lingua (e per la cultura che essa riflette). Sempre Serres ammonisce: «una lingua viva è una lingua che può dire tutto. Se inizia a mancare questa possibilità, anche solo in un paio di settori specialistici [vedi sopra, ndr], allora quella lingua è virtualmente morta».

Arrendersi all’uso indiscriminato di una lingua straniera – a maggior ragione se sempre la stessa! – è una sconfitta alla colonizzazione, un’ammissione di sudditanza, non un’apertura sul mondo. Per essere feconda, la globalizzazione dovrebbe comportare “cosmopolitismo” e convivenza di lingue e culture, non una dittatura più o meno silente di una lingua, del relativo modo di pensare e potere economico.
Da qualche tempo gli italiani sembrano aver riscoperto un amore e un orgoglio perduti verso il proprio Paese, rispolverando bandiere tricolori e cantando l’inno di Mameli in qualunque situazione. Se questo amor di patria è così vivido, iniziamo a voler bene alla nostra lingua.

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