(foto Dania Ceragioli)
Niteroi, Brasile: quando le coste del Sudamerica diventano luogo di culto: sulla sabbia incendiata dal sole, ogni anno i brasiliani rendono omaggio alla divinità marina.
di Igor Vazzaz
Rio de Janeiro d’estate, quando alle nostre latitudini affrontiamo i freddi invernali, non si limita a offrire notti infinite sulle note di bossanova e samba, annegate in birra ghiacciata, cachaça e caipirinha. Del resto, il Brasile è un universo difficile da contenere in uno sguardo, impossibile da rendere in pochi tratti, pena l’inerzia d’una banalizzazione fine a sé stessa: tanto vicino e tanto lontano, così aperto, sorridente, eppure così ineffabile, a volte incomprensibile.
Accade quindi di svegliarsi, la mattina del primo dell’anno, e scendere in spiaggia: non a Rio, intrappolata nel caos del divertimento coercitivo, ma nell’antistante Niteroi, sull’altro lato della Bahia di Guanabara. Città non trascurabile, col suo mezzo milione d’abitanti (niente, rispetto ai sei e passa della cidade maravilhosa), le architetture di Oscar Niemeyer e una veduta panoramica in grado di abbracciare oceano e golfo, l’incantevole costa carioca, le spiagge di Flamengo, Botafogo, sino al Pan di Zucchero.
La lunga spiaggia niteroiense, però, è tutt’altro che sgombra: non la occupano (soltanto) i resti endemici dei festeggiamenti sansilvestrini, eredità ordinarie, cartacce e bottiglie vuote, di manifestazioni all’aperto, bensì una serie di tavole imbandite, dai toni chiari, con sopra cibarie, frutta e oggetti di varia natura. Le presenze umane risaltano subito per una peculiarità: di bianco vestite, indaffarate nell’allestimento del curioso banchetto e in una serie di gestualità usate e sapienti, in direzione del mare. L’atmosfera è carica di energia, una strana sensazione invade le narici, gli occhi, i sensi tutti, anche se l’osservatore è esterno, europeo per giunta, e quindi per natura incapace di capire, penetrare, sintonizzarsi su questa palpabile euforia diffusa. Risuonano musiche ritmate, allegre, le percussioni rimandano all’Africa, quella casa immaginata che molti brasiliani portano nel sangue, nelle viscere, in un passato che sanno ma che non possono ricordare. Quella particolarissima memoria nera spiega ciò cui stiamo assistendo, muti e fascinati, quasi rapiti dal ritmo dei gesti senza tempo disegnati sulla sabbia chiara.
È Iemanyà la protagonista della festa: orixà, presenza semidivina della religione yoruba, protettrice delle teste, madre di tutti gli altri orixà, figlia del dio Ogun, madre i cui figli sono i pesci (Yeyé omo ejá), regina del mare e di tutto ciò che in esso è contenuto. Impossibile tracciarne una storia precisa, tanto sono differenziate le leggende attribuitele nel passaggio dal Continente Nero al Latinoamerica. Le caratteristiche indiscusse e comuni sono il legame col mare, regno indiscusso, con l’acqua, elemento di vita, fertilità, rinnovamento, il carattere difficile e la muliebre vanità. Ed è per questo che, tra i doni recati sulle tavole imbandite e sulle piccole imbarcazioni che in breve prenderanno il largo per tributarle omaggi e regalie, ci sono specchietti, pettini, profumi, orecchini e gioielli, nel tentativo di ingraziarsi la tanto potente divinità: è superba, vanitosa, e va sapientemente blandita.
Le barche partono tra canti e cori di buon auspicio, raggiungono il largo per rovesciare tra le onde i doni carichi di speranza che l’uomo reca alla dea. Se gli oggetti saranno inghiottiti dal mare, l’anno sarà difficile; se, come sempre accade, resteranno sulla superficie dell’oceano, cullati dalle maree, i presagi per il futuro saranno felici e carichi di speranza.
Iemanyà è presenza insinuata nella mentalità brasiliana, quella cultura così vicina a noi perché di matrice cristiana, eppure così remota per la capacità di coniugare istanze antipodiche, di non rinunciare al proprio substrato magico, le origini africane, una visione panica del cosmo e della natura. La religione dei brasiliani è invasiva, diffusa, la si respira in ogni andito della vita, pubblica o privata che sia: Se Deus quiser, letteralmente “se Dio vuole”, non è una formula vuota d’esibizione fideistica, è la percezione intima della presenza di dio in ogni cosa, frase sentita per strada, nei discorsi dei politici, nelle dichiarazioni dei calciatori. Per loro, dio non solo esiste, ma c’è, partecipa della nostra vita, del nostro mondo. I display degli autobus che intasano i viali delle città carioca riportano, oltre alle destinazioni, Viajando com Deus, “viaggiando con dio”, qualcosa di incomprensibile per noi europei, così laici, a prescindere dalle inclinazioni personali. Per noi la fede è un fatto individuale, ai limiti del privato, per loro è sociale e socializzato, collettivo.
Non c’è contraddizione tra cristianesimo e radici africane, non rifiuto, ma integrazione, unificazione, sovrapposizione. Si chiama sincretismo, significa letteralmente “fusione di elementi eterogenei”: anche nella storia delle culture popolari e religiose d’Europa si sono avuti fenomeni del genere, ma in direzione d’un sostanziale trionfo su tutta la linea del cristianesimo che ha “sbaragliato” le credenze antecedenti, rivestendone figure, miti, storie.
In Brasile, e in molte altre zone dell’America Latina, le cose sono andate diversamente: le divinità africane e quelle cristiane si sono sia sovrapposte sia affiancate, dando vita a una compresenza profonda e affascinante.Candomblé, Umbanda, spiritismo e sapienze magiche, commistioni da cui si sono originate usanze che incidono profondamente la vita delle popolazioni brasiliane. Del resto, la stessa Iemanyà (o, come riportato in altre tradizioni, Iyemanjá, Yemanjá, Yemaya, Iemoja, Iemanjá o Yemoja) è anche chiamata, in evidente sincretismo con il cristianesimo, Nossa Senhora dos Navegantes, corrispondente dunque alla Madonna cristiana protettrice dei marinai. Non solo: gli attributi caratteriali rimandano evidentemente anche a una radice precedente, a quella dell’Afrodite ellenica, dea della bellezza, e non del mare, ma dalle acque originata, prima tra tutte le divinità, più antica persino del potente Zeus.
Iemanyà, Rainha do Mar, femmina prima tra tutte le divinità, attende ogni anno che gli uomini le offrano doni e attenzioni, tributi alla sua infinita bellezza, alla sua potenza liquida e vitale: nei primi giorni dell’anno sono i cariocas, gli abitanti dello Stato di Rio, a ingraziarsela, lungo le coste della capitale, di Niteroi e di altre località marine; poco più tardi, il 2 febbraio, è a Salvador de Bahia, sulla foce del Rio Vermelho, che i fedeli accorrono a renderle in massa tutti gli onori, e così lungo tutta la costa brasiliana, dal Nordeste sino a oltre il confine con l’Uruguay. La dea, vanitosa e potente, attende, ogni anno, da sempre, sciacquando di spuma le spiagge chiare di quell’universo, così lontano e così vicino, che è il Brasile.
Igor Vazzaz, toscano di origine friulana, si occupa a vario titolo di teatro, tv, musica (come cantante e autore), satira, cultura, collaborando con l’Università di Pisa e varie testate. www.igorvazzaz.blogspot.com, www.myspace.com/tarantola31