(fotografia © Samuel Cogliati)
di Samuel Cogliati
luglio 2019
Sono andato a un concerto. Detto così può sembrare una frase vuota e scontata; grammaticalmente lo è. Né peraltro trattasi di evento unico e irripetibile: da qualche tempo mi sono riproposto di recuperare il molto tempo perso e tornare a frequentare le platee quanto più possibile, ogni volta che ne valga la pena. Proprio qui arriva la prima considerazione: è raro che non ne valga la pena.
Dicono io sia un sentimentale, un emotivo, un romantico. Va bene. In quarantatré anni non ho ancora capito se sia o meno un pregio, ma non entriamo in frivole disquisizioni. Tant’è.
Fatto sta che la musica mi garba proprio. Di più: la musica, ogni volta che l’avvicino dal vivo – registrata accade quotidianamente, come con uno stupefacente –, mi sbandiera la sua più implacabile lezione: mi ricorda in modo spietato e derisorio che ho mancato la mia autentica vocazione. Forse non ne avevo le qualità, di certo non mi sono impegnato quanto la musica richiede, impone senza sconti. È andata così; è tardi per rimediare.
Ma da spettatore, caspita, no. Ogni volta che assisto alla prestazione di un grande artista si risvegliano in me miriadi di altre considerazioni. La seconda è che, dal mio punto di vista, la musica incarna quanto di meglio un essere umano possa produrre. La terza è che questa stupefacente possibilità possiede un dono straordinario: la condivisione. I grandi artisti non si esibiscono per generosità né per beneficenza: c’è inevitabilmente in loro un fondo di egocentrismo e di narcisismo. Ma poiché il pubblico è indispensabile, l’effetto collaterale è che questa forma d’arte – come le altre, ben inteso – finisce per essere condivisa. E questa condivisione produce un esito allucinogeno, che tecnicamente medici e psicologi potrebbero forse illustrarci ma, soprattutto, che ha una conseguenza infinitamente nobile: la sublimazione di un’esistenza umana.
Gli esseri umani sussistono di alimenti, aria, riposo, cure. Ma questo non basta a distinguerli dalle bestie. Gli esseri umani accedono al senso della loro esistenza – dilemma che alle bestie non si pone – in momenti come questi. Creando o anche, più umilmente, ricevendo arte. La qual cosa spazza in un solo, rapido, definitivo istante, la diatriba sull’utilità ed eventualmente sull’entità dei compensi di artisti e pensatori. Necessari tanto e quanto l’altra categoria umana nobile per eccellenza: gli agricoltori. È semmai su un piano politico che si pone il problema economico, con la disarmante penuria di intelligenti e adeguati finanziamenti a un’agricoltura sostenibile e di qualità, proprio come alla cultura e all’arte.