Un modello coercitivo di potere e formalismo, che fagocita le alternative
di Samuel Cogliati
marzo 2019
È da poco passato l’8 Marzo, con tutto il significato, le perplessità e l’attualità che ancora implica questa data. Di sicuro l’eguaglianza tra donne e uomini ha ancora molta strada da fare. Mi guarderò bene dall’entrare in una questione complessa, delicata e tanto dibattuta da trasformarsi in un campo minato di qualsiasi conversazione. Spero semplicemente che nessuno dubiti più, perlomeno nel cosiddetto “mondo occidentale”, che donne e uomini debbano avere pari diritti civili e pari opportunità.
Come accade spesso in queste situazioni mi pare che sorga tuttavia un equivoco pernicioso: che parità ed eguaglianza civili siano confuse con identicità. Un problema che si pone ad esempio quando entriamo nell’àmbito della cosiddetta “integrazione” sociale e culturale dei migranti. “Siamo tutti uguali”, sogliono dire i difensori dei diritti umani e civili; un’affermazione che, nonostante le lodevoli intenzioni, racchiude a mio avviso un rischio semantico (e dunque un pericoloso fraintendimento). Non è vero che siamo tutti uguali, anzi, siamo tutti diversi. Il punto è accettare, difendere e comprendere la diversità come un diritto e una fortuna: immaginate che tristezza se davvero fossimo tutti uguali! Ciò che accomuna gli esseri umani è la parità di diritti e doveri, non l’identità di vedute, usi o costumi.
Mi sono concesso questa digressione perché, quando osservo l’aspetto delle persone di successo e/o di potere – “quelli che contano” – salta agli occhi un modello di abbigliamento omologante: quello maschile europeo, messo gradualmente a punto a partire dall’Ottocento inglese. Giacca e cravatta, insomma, appaiono un formato imprescindibile per vedersi accreditati e riconosciuti sul piano dei rapporti sociali o politici “di alto livello”. Sin qui, forse, poco male: ogni situazione, epoca e cultura ha i suoi codici, e far finta di ignorarli è velleitario.
Meno scontato mi sembra il fatto che questo formato – imposto dai Paesi economicamente, militarmente e culturalmente dominanti negli ultimi due secoli – abbia letteralmente fagocitato qualunque alternativa credibile. Così, gli uomini di altre nazioni, quelle un tempo in buona parte dominate dall’Europa, ma anche le donne, da quando hanno faticosamente iniziato ad avere accesso alle posizioni di potere, si sono adeguate. Con qualche piccola variante o concessione: una gamma di colori e accessori più libera per le signore, alcuni dettagli marginali per gli uomini (come ad esempio il colletto “alla coreana” nel caso del primo ministro indiano). In buona sostanza, tuttavia, si tratta di un’imposizione cui non si può sottrarsi, pena vedersi delegittimati agli occhi dei propri interlocutori. Sono rare le eccezioni: alcune figure del mondo arabo, del continente africano o del Sudamerica. Ma la cosa che più colpisce è che le donne, per imporsi professionalmente, debbano in buona sostanza “vestirsi da uomini”.
È un peccato, perché un’eterogeneità di stili forse potrebbe in qualche misura contribuire a lasciare emergere una pluralità di vedute, di valori, di punti di vista. Ma probabilmente non è un caso che sussista questa forma di autocensura anche nell’abbigliamento.