Storia di rock e megapixel
di Samuel Cogliati
dicembre 2018
Questa è una storia vera. Lei era un’acclamata star della musica pop negli anni Ottanta. Vari osservatori scommisero sulla sua carriera e sull’ascesa della sua stella, predicendole un futuro fulgido e un successo incontrastato. Le sue rivali sarebbero state adombrate, dicevano.
Invece, dopo qualche album che le accordò una rinomanza planetaria, il suo astro iniziò a offuscarsi senza apparente motivo, e la sua opera uscì incolpevolmente dalle luci della ribalta mondiale.
Non fui mai un suo fan. Le ultime testimonianze dirette di lei nelle quali incappai casualmente risalgono al periodo universitario, quando un ammiratore tanto ossessivo da apparire invasato ricopriva di graffiti i muri della ritirata maschile, con frasi del genere «un suo disco ti accende la vita». Ho sempre percepito quell’entusiasmo come il segno di un probabile squilibrio mentale.
Non so dire per quale motivo, ma qualche sera fa ho voluto rivederla. Internet è uno strumento di straordinaria efficacia in questi casi. L’uomo novecentesco che ancora alberga in me continua a non capacitarsene. Ho dunque facilmente rintracciato un suo concerto dello scorso mese di agosto. Immagini amatoriali, ma lei è così vitale da far dimenticare i suoi sessantacinque anni suonati. O quanto meno da strappare un sorriso di empatia e condiscendenza. Applausi. La sua grinta fa pensare a Tina Turner, ma con meno distanza. Così poca distanza che l’attempata ragazza a un certo punto scende dal palco – instillando immediata quanto inutile apprensione nei suoi gorilla – e passeggia amabilmente tra il pubblico, continuando lo spettacolo per alcuni minuti. Ripeterà la procedura altre volte.
È a questo punto che avviene l’incomprensibile. Lei è lì, così a portata di mano da battere il cinque ad alcuni dei suoi fans, con calma, senza fretta e senza ansia. Si pianta lì e continua felicemente a cantare. E loro, sistematicamente, che cosa fanno? Si voltano, le dànno le spalle.
Roba da chiedersi che cosa stia succedendo, che cosa transiti per quelle menti. Niente, è solo il nuovo millennio. Tutti, dal primo all’ultimo, girano infatti il telefono cellulare, sciorinano un gran sorriso a quarantotto denti, e si immortalano in un selfie – fotografico o video, non è dato sapere – con l’artista. Si immortalano per modo di dire, perché, diversamente dagli scatti analogici della nostra gioventù, quei file digitali andranno molto probabilmente perduti, distrutti o dimenticati da una durata di vita più breve dei ricordi.
L’accusa di arretratezza o retrività è ovvia. Tuttavia non ho potuto fare a meno di pensare a quale momento gli occhi e i neuroni di quei fans si stessero perdendo, una volta per sempre, nel voltare le spalle alla loro eroina, anziché guardarla con tutta l’avidità e la concentrazione possibili, respirarla, parlarle, provare a toccarla, sperare in un sorriso ricambiato. Fine della storia.