(foto Samuel Cogliati)

Un nuovo modo di accogliere il cliente

di Samuel Cogliati

Non so se si possa legittimamente chiamare concept store, anche perché non sono sicuro di sapere che cosa sia un concept store. In ogni caso, recarsi in un Apple Store, per chi non è aduso a questo genere di frequentazioni, è una vera e propria esperienza. Forse più che la sostanza, lo stile impresso al negozio suona chiaramente alternativo e innovativo.

Innanzi tutto nel grande open space non ci sono banconi. O meglio: ce ne sono parecchi – 17 nel mio caso specifico –, ma a prima vista nessuno dedicato al servizio clienti. Basta tuttavia un secondo sguardo per capire che sono invece, mi pare, potenzialmente tutti dedicati al servizio, anche se nessuno con la formula tradizionale “postal-ministeriale” delle barricate: da una parte il cliente, dall’altra il personale. No, all’Apple Store entrambi i contendenti sono dalla stessa parte, sullo stesso lato del bancone. Promiscuità. Promiscuità tanto più saliente dato che – sempre a prima vista – è difficile capire chi sia il personale. Esso è infatti “libero” anziché in cattività dietro a uno sportello, e apparentemente vestito come un qualsiasi cliente. L’unica cosa che lo distingue – te ne accorgi abbastanza presto, se sei minimamente perspicace (a me c’è voluto un po’) – è una maglietta d’ordinanza a maniche corte, di un bel colore blu grigiastro e ornata da un piccolo logo a forma di mela sul cuore; alcuni dipendenti sono inoltre dotati di auricolare e iPad. Per il resto, il nostro personale è quello “della porta accanto”: uomo o donna, giovane (preferibilmente) o meno, bello o meno bello, magro o grasso, bene o malvestito. Apparentemente non selezionato, dunque, ma in realtà sappiamo benissimo che, per offrire il meglio, i criteri di selezione sono del massimo rigore. Inoltre – dettaglio non da poco – trattasi di un personale numeroso e solerte: solo a un occhio distratto potrebbe sembrare che “pascoli senza meta”; basta osservarlo brevemente per notare che è perennemente indaffarato. (In questo luogo sembrerebbe già ampiamente applicata la dottrina Richard Branson “niente orari e ferie libere”).

Ovviamente il personale ti “scheda” subito, in modo da poter chiamarti senza esitazione con il tuo nome di battesimo. (Per me, che ho seri problemi sia mnemonici sia fisionomistici, tale lavoro sarebbe fuori portata). Neanche a dirlo, per quanto tu ti possa ostinatamente attestare sul Lei di cortesia, all’Apple Store sono di rigore il “ciao” e il “tu”. Insomma: abbiamo a che fare con un evidente processo di democratizzazione dei rapporti: cliente e risorse umane rigorosamente sullo stesso piano, tutti amici, grandi strette di mano e non c’è differenza. Il paleozoico individuo che sono io chiama questo processo “indistinto livellamento verso il basso”.

All’Apple Store puoi liberamente giocare, maneggiare, toccare e provare tutti i prodotti in esposizione – “casa mia è casa tua…” – ma se il motivo della tua visita non è turistico, le sorprese sono talora in agguato. Io ci sono andato per sostituire una tastiera difettosa e non avendo potuto prendere un appuntamento via telefono (il prodotto non rientrava nella casistica proposta dal gentile sintetizzatore vocale) mi sono presentato all’improvviso con materiale e ricevuta.


Svolgimento della visita

La sostituzione della tastiera guasta non poneva problemi, mi è stato subito detto dalla persona che mi ha accolto, ma mi avrebbero fissato un appuntamento due ore e venti minuti più tardi. Di fronte alla mia tiepida perplessità, è stata rapidamente cambiata versione, dichiarandomi che si sarebbero presto occupati di me. «Attendi pure lì vicino alla stampante, ti mando qualcuno appena riesco». Dopo 45 minuti di attesa, impiegati alla stesura del presente testo, del mio salvatore nemmeno una traccia. «Andrò a mangiare un Big Mac», ho pensato, ma poi mi son detto che la flessibilità del nostro concept store mi avrebbe forse autorizzato a provare a infrangere l’ingiunzione fornita. Così mi sono avvicinato alla persona che mi aveva accolto, facendo presente il mio caso. «Non hai parlato con me», mi ha risposto, e del resto il mio pessimo fisionomismo mi ha impedito di ribattere autorevolmente, nonostante avessi seguito con lo sguardo il mio uomo per lunghi minuti. Indirizzato verso un collega, costui mi ha dirottato da un altro collega, al cui iPad la mia posizione risultava effettivamente aperta e pendente. Interpellato un tecnico, che si è rivolto a un altro tecnico, sono stato invitato a occupare lo sgabello di un secondo bancone, dove la relazione si è curiosamente trasformata in un dialogo “tradizionale”, ciascuno su un lato opposto del manufatto. Qualche verifica tecnica, due passaggi in magazzino, e 15 minuti più tardi avevo trionfalmente in mano una tastiera nuova, non senza aver sottoscritto con il dito su una tavoletta digitale il verbale di consegna.

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