di Samuel Cogliati
• marzo 2022 •
Non è esattamente al suo primo concerto, né alla sua prima esibizione al Blue Note di Milano. L’avevamo applaudita già prima della pandemia nel club di via Borsieri e frequenta l’Italia da prima ancora.
Ciononostante, Andrea Motis viene tuttora considerata da molti come una stella nascente, una sorta di promessa del jazz europeo, o come un’enfant prodige della tromba. Nulla di più comprensibile, se guardiamo all’anagrafe: Andrea nasce il 9 maggio 1995 a Barcellona, e si avvicina alla musica molto precocemente: inizia proprio con la tromba e poi con il sassofono, e i suoi progressi sono così rapidi e impressionanti che ad appena quindici anni esordisce discograficamente con Joan Chamorro presenta Andrea Motis. Nel 2017 l’approdo all’etichetta Impulse!, con l’album Emotional dance.
Proprio al controbassista Chamorro, suo maestro e mentore sin dai tempi della formazione infantile, la jazzista catalana resta strettamente legata, sia nel percorso discografico sia nei tour dal vivo. Ed è sorprendente – per certi versi commovente – osservare la naturalezza con cui Chamorro riesce in un’opera multipla: fungere da “tutore” e da volano, e al contempo mettersi artisticamente al suo servizio sul palco, quale sostegno di mirabile discrezione.
Andrea confessa un amore indissolubile per il suo strumento – che suona con una morbidezza convincente –, ma nel concerto del 12 marzo al Blue Note è sul fronte del cantato che colpisce forse di più. Non perché la voce primeggi sull’ottone, ma perché l’evoluzione su questo piano sembra evidente e propulsiva.
Motis non possiede un timbro graffiante né una potenza sconcertante, né può vantare virtuosismi indimenticabili. Tuttavia è nella modulazione, elegante e misurata, delle corde vocali che il suo cantato mette all’angolo le residue possibili obiezioni di fondo.
“Poco ma buono”, potrebbero malignare i flebili sostenitori. A un ascolto attento non sembra essere così: la tenuità appare come una virtù sulla quale la catalana fa leva. Definizione, precisione, consistenza sonora anche nel medio volume: non c’è bisogno di exploit per lasciare il segno.
E il segno che il trio sul palco milanese lascia è minuto, fine, ma memorabile. Motis alla voce e alla tromba, Joan Chamorro al contrabbasso, Josep Traver alla chitarra, con un repertorio che spazia dagli standard del Dopoguerra alle suggestioni carioca, fino al pop spagnolo. Tutto – dall’inizio alla fine – in piena coerenza espressiva, di toni, di intensità, di tempo; un “concept concert” nel quale le varie anime della varietà vivono sul medesimo piano. Così, Honeysuckle rose e Ain’t non sunshine, My favourite things e Estate, Mediterraneo e The ideal marinano in un’unica, felpata temperie. Fino alla chiusa, imprevista e convincente, in cui il terzetto conclude un brano ispanico con un mantra “a cappella”, una voce al servizio dell’altra.
Andrea Motis sta per compiere 27 anni. Ma al di là dell’anagrafe e degli ormai numerosi dischi alle spalle, nonostante il volto da ragazzina, forse è giunto il tempo di smettere di considerarla “giovane”, con quella venatura di acerbità che, per quanto lusinghiera possa essere, la definizione sempre produce.
L’aspettiamo di nuovo, con ansia, in Italia. Perché da un suo intimo e vellutato concerto si esce alleggeriti e sorridenti, senza rumore. •