(Villié-Morgon, fotografia © Giorgio Fogliani)

Vinificazione: carbonica o non carbonica? È questo il problema?

di Giorgio Fogliani

Villié-Morgon, settembre 2017

La macerazione carbonica e la cosiddetta semi-carbonica sono procedure celebri nel Beaujolais e diffuse qua e là in altre zone della Francia. Sono entrambe legate a un particolare tipo di fermentazione, di natura enzimatica, che si svolge all’interno dell’acino: quest’ultimo deve essere lasciato intero (nessuna diraspatura né pigiatura) e trovarsi in un ambiente saturo di anidride carbonica, donde il nome.

Sulla carta, nella macerazione carbonica propriamente detta i grappoli interi vengono posti in un recipiente saturato di CO2, chiuso ermeticamente e lasciato intatto per qualche giorno fino alla svinatura, cui poi seguirà la fermentazione alcolica vera e propria (il prodotto di una macerazione carbonica ha un tenore alcolico di appena il 2-3%). La semi-carbonica prevede invece che nella vasca, assieme ai grappoli interi, si trovi una certa quantità di liquido, esito o dello schiacciamento degli acini per il loro stesso peso o di uno starter appositamente preparato. Questo mosto inizia ben presto a fermentare e può essere usato per praticare dei rimontaggi, così che nello stesso ambiente coesistano la fermentazione intracellulare tipica della macerazione carbonica e un principio di alcolica classica. Fin qui la teoria.

(Villié Morgon, fotografia © Giorgio Fogliani)
(Villié Morgon, fotografia © Giorgio Fogliani)

La macerazione carbonica, usata anche per la produzione del novello, non manca di avversari: le si imputa, in un luogo comune abbastanza diffuso e solo parzialmente veridico, di standardizzare i vini, cui conferirebbe un carattere fruttato immediato e troppo “facile”, inconveniente al quale ovvierebbe, secondo alcuni, proprio la semi-carbonica. Ma neppure quest’ultima è esente da critiche: in un’intervista alla rivista indipendente francese LeRouge&leBlanc del 2011, Jean Foillard, produttore di riferimento di Morgon, le rimproverava un effetto «tisana di raspi», cioè l’estrazione del tannino verde per via della prolungata permanenza dei grappoli interi “a bagno” nel mosto.

Foillard rivendica risolutamente la macerazione carbonica, ma un’indagine più approfondita sembra rivelare che il confine tra le due procedure è più labile di quanto appena descritto, e le ibridazioni più frequenti di quanto si creda. In questo senso Mathieu Lapierre, figlio di Marcel ed erede dell’azienda di famiglia, è lapidario: «La distinzione tra carbonica e semi-carbonica è una cosa da giornalisti, noi vignaioli non ragioniamo in questi termini. Lavoriamo secondo un’unica procedura, messa a punto da mio padre e da Jules Chauvet, senza troppo preoccuparci dei nomi». Me la descrive con cura.

Presupposto essenziale è una sanità assoluta delle uve, più importante che mai dal momento che la fermentazione si svilupperà all’interno dell’acino. Il processo si svolge in tini troncoconici che non vengono saturati di CO2 prima dell’arrivo dell’uva (4.000 kg per tino): a produrre l’anidride è il succo proveniente dallo schiacciamento dei frutti, che Mathieu, ex cuoco, chiama jus de cuisson (“succo di cottura”). I tini in legno non vengono chiusi ermeticamente («altrimenti scoppierebbero») ed è il vinificatore a gestire la quantita di jus, che «non deve superare il 20% del volume della vasca». Può capitare di prelevarne un po’ dal fondo del tino per innaffiare le vinacce in superficie, ma in modo blando, «come una doccia leggera, senza che si possa parlare di un rimontaggio», per evitare la temuta estrazione dei raspi già stigmatizzata da Foillard. Per lo stesso motivo, e per evitare inneschi di fermentazioni parallele indesiderate, Lapierre ha cura che la temperatura all’interno dei tini non superi i 25 °C, e non è raro vedere vignaioli che raffreddano l’uva immediatamente dopo la vendemmia. Il processo può durare da due a sette settimane, dopodiché il contenuto dei tini – mosto parzialmente fermentato e un’uva dalla buccia ormai morbidissima – viene trasferito in un vecchio torchio verticale del Seicento, dove subisce una pigiatura soffice (1 bar), sempre per non “spremere” i raspi. Ciò che ne esce è un liquido detto paradis (paradiso) che ha gli aromi del vino ma è quasi analcolico, e «possono berlo anche i bambini». Il paradis viene messo a fermentare con i fondi dei precedenti tini, che sono ricchi di lieviti, e ha così inizio la vinificazione propriamente detta. Lapierre la svolge in vecchi tonneau («il contenitore perfetto per far depositare le fecce fini e non dover poi filtrare il vino») in una cantina appositamente raffreddata: la bassa temperatura è condizione necessaria, poiché la macerazione carbonica tende a consumare quasi tutto l’acido malico dell’uva, creando così un ambiente favorevole all’attacco dei batteri lattici; un rischio da cui ci si difende con una fermentazione alcolica completamente svolta e il più lenta possibile. Solo in casi eccezionali viene usata la solforosa – «comunque mai sulle uve» –, considerata una medicina e da impiegarsi dunque soltanto in caso di “malattia”; una minima quota è aggiunta all’imbottigliamento nel 70% dei volumi prodotti: il resto viene imbottigliato senz’alcuna protezione, pratica che «esige più attenzione nella conservazione, ma specie nei primi anni regala vini più espressivi», precisa Lapierre.

Questo procedimento è sostanzialmente identico per un gruppo di aziende fondate da allievi o colleghi di Lapierre padre, come lo stesso Foillard, Georges Descombes con il figlio Kéké e il figliastro Damien Coquelet, Jean-Paul e Charly Thévenet, Jean-Claude Chanudet (Domaine Chamonard) e i fratelli Thillardon, o loro estimatori, come Fabio Montrasi (Château des Rontets), viticoltore a Fuissé, nel vicino Mâconnais, che firma con lo stessa logica un pregiato saint-amour (raro cru settentrionale del Beaujolais). Ma la vinificazione “tradizionale” con diraspatura e pigiatura («alla borgognona», come dicono in Beaujolais) è tutt’altro che minoritaria, ed è anzi forse più diffusa. Per Jean-Paul Brun, vignaiolo e négociant icona del Sud della regione, è anzi più interessante, perché privilegia la struttura e il potenziale d’invecchiamento rispetto al frutto, e al contempo «consente al vignaiolo di anticipare l’imbottigliamento e uscire prima sul mercato».

Quale delle due tecniche sia veramente “autoctona” della regione è insomma difficile da appurare, ma in fin dei conti anche poco interessante. Analogamente, ha poco senso voler stabilire quale sia il metodo migliore, o quello che più esprime il potenziale del gamay e del territorio: entrambe le scuole sono infatti in grado di regalare vini straordinari, tanto nella loro esuberante gioventù quanto in invecchiamento, una prospettiva ancora colpevolmente trascurata dalla maggior parte dei bevitori.

(Domaine Lapierre, fotografia © Giorgio Fogliani)
(Domaine Lapierre, fotografia © Giorgio Fogliani)

fogliani@possibiliaeditore.eu