(in sala al Ristorante Al Mercato, Milano – fotografia © Giorgio Fogliani)

Come il savoir-faire di sala può cambiare l’esito di una serata
(parte prima)

di Giorgio Fogliani

maggio 2016

Come un buon maître d’hôtel sa servire come cosa sopraffina un pezzo di bollito che non verrebbe voglia di mangiare vedendolo in una cucina sudicia,
così quella sera Anna Pavlovna serviva ai suoi invitati prima il visconte e poi l’abate, come qualcosa di altamente raffinato.
(L. Tolstoj, Guerra e pace)

Il dibattito che si è aperto attorno alla “sala” è tra i più interessanti in cui mi sia capitato di imbattermi negli ultimi tempi. Una boccata d’ossigeno e una sferzata di contenuti necessarie in un momento in cui la cucina, e la ristorazione tutta, da arte rischia di diventare tecnica e da vettore di cultura si è fatta oggetto di idolatria.

Al tempo in cui i fratelli minori dei ragazzini che dieci anni fa volevano fare i calciatori si immaginano cuochi (pronunciate: scèf), languono invece gli aspiranti maître, condannati dall’immaginario comune a restare “camerieri”. Ma l’inevitabile risultato di una sala non adeguatamente formata né considerata, schiacciata tra un cuoco-star e un cliente spaesato, è una cucina autoreferenziale, che o non è capace di comunicare o lo fa in modo goffo perché povero di strumenti culturali. O ancora, peggio, il cortocircuito di uno chef che, fagocitando maître e sommelier, abdica alla propria funzione, smettendo di cucinare per dedicarsi maldestramente alla sala (e ai salotti). Il fatto stesso che non abbiamo a disposizione un termine italiano per maître – mentre ne abbiamo uno per chef, e se non lo usiamo è solo per una scelta deliberata – illustra meglio di ogni altra cosa la nostra impreparazione sul tema.

Ma le cose non sono sempre andate così. Come ricorda Giacomo Gironi, maître del ristorante milanese Al Mercato e docente di Management di sala alla Food Genius Academy, «nel Medioevo l’oste aveva ben più dignità del cuoco, che invece era relegato a un ruolo in tutto e per tutto servile. Più avanti, nel Settecento, erano figure come lo scalco e il trinciante (professionisti di sala ante litteram) a stabilire se una pietanza fosse degna di uscire dalla cucina. È solo nel XX secolo che, almeno in Italia, si diffonde l’idea distorta che il cameriere debba essere un ragazzetto in cerca di qualche spicciolo. Il resto l’ha fatto la recentissima mediatizzazione degli chef, che ha puntato loro addosso i riflettori e li ha indotti a credere di poter fare a meno della sala. Solo che dopo gli onori, sono arrivati gli oneri».

Non si creda, però, che sia in atto una “resa dei conti” tra cucina e sala; non è neppure vero che il declino della seconda sia da imputare alla prima: «è la sala stessa – continua Gironi – che ha abdicato alla propria funzione di perno tra cucina, cliente, proprietà e fornitori. Se il cuoco ha un’intelligenza intuitiva, creativa, il maître deve avere un’intelligenza “speculativa”: da una parte padroneggiare (a livello teorico) le tecniche di cucina per sorvegliarne l’operato, dall’altra capire i diversi tipi di clienti per sapervisi rapportare». Non si tratta solo di metterli a loro agio, né soltanto di narrar loro nel modo migliore quanto si ritrovano nel piatto: si tratta probabilmente delle due cose insieme, unite alla capacità di valutare chi si ha di fronte, guidarlo se desidera essere guidato o, al contrario, sorvegliare più discretamente il suo desinare. Un’attività, insomma, che richiede conoscenza della materia, sensibilità e preparazione culturale.

A tentare di restituire alla sala (e alla cantina) la dignità e la visibilità che meritano stanno provando alcuni professionisti del settore raggruppatisi nell’associazione NoiDiSala, che organizza corsi e offre opportunità di lavoro cercando di creare una rete e uno spirito di categoria. Giuseppe Palmieri, da più di quindici anni maître della celebre Osteria Francescana di Modena, è certamente uno dei membri più esposti di questa piccola avanguardia, ma anche uno dei più propositivi: «Vogliamo abolire la gerarchia in sala – ha dichiarato a Camilla Rocca in un’intervista del marzo 2016 – è necessario portare tutti sullo stesso livello di conoscenza e competenza [] è arrivato il momento di rivedere certi meccanismi obsoleti che penalizzano i ristoranti in cui un commis non è in grado di dialogare e di raccontare o di un maître che non serve e non sbarazza un piatto perché quel compito non gli compete». Una provocazione, almeno in parte, perché una sala senza gerarchie sembra difficile da immaginare, ma la condivisione delle competenze deve essere, mi sembra, un punto da cui ripartire.

Il messaggio dell’”emergenza sala”, comunque, pare almeno in parte sia passato: basti vedere l’ampia risonanza che alla sala ha dedicato Identità Golose (il famoso congresso gastronomico che si tiene ogni anno a Milano) al punto da consacrarvi una rubrica, “Identità di sala”. Viene quasi da chiedersi se sala e maître non stiano per diventare i nuovi mantra di un mondo sempre più alla ricerca di icone… 

[continua]

fogliani@possibiliaeditore.eu