(foto Dania Ceragioli)
Quelle linee melodiche nate dagli anni Settanta, dal Belgio e dalla Gran Bretagna.
Con un messaggio: resistere e insistere.
di Igor Vazzaz
settembre 2010
Incontriamo Max Gazzè al secondo tentativo. Non che manchi di disponibilità – anzi! e questa è l’occasione per ringraziare lui e il suo management – ma il 29 luglio Firenze era stata sciacquata da un interminabile temporale che aveva annullato anche il suo concerto.
La data è stata recuperata il 7 agosto, costringendo gli organizzatori di InFortezza Estate – Avanti Popolo, bella rassegna di musica di qualità nello spazio della Fortezza da Basso, a inserire l’esibizione di Max assieme a Angela Kinczly e The Waiting Room prima di Bella Livorno, concerto dedicato alla città toscana e ai suoi artisti: i Virginiana Miller, Nada e, soprattutto, Bobo Rondelli.
Qui, però, Max Gazzè non presenta il proprio repertorio originale di suggestioni melodiche, testi mai banali e freschezza d’ascolto, ma un progetto centrato sulla riproposizione integrale di The Lamb Lies Down On Broadway, celebre e discusso concept album dei Genesis, datato 1974, ultimo capitolo della proficua collaborazione tra la storica band e il suo primo leader Peter Gabriel.
Oltre all’esecuzione musicale lo spettacolo presenta un apparato di videoproiezioni appositamente realizzato riscuotendo un sonoro e meritato successo: certo, è abbastanza inconsueto vedere Max cantare seduto, in posizione composta, senza il basso a tracolla e senza cercare una dire a interazione col pubblico. Ma la scelta è legittima: se si vuole riproporre una storia, un concept, la forma deve prevedere una sorta di “chiusura” rispetto all’esterno; del resto, al netto degli applausi, i cantanti delle opere liriche non interrompono gli spettacoli per ringraziare il pubblico.
Appena sceso dal palco, Max è avvicinato dai fans: foto di rito, pacche sulla spalla, commenti, battute, il classico corredo dei concerti. C’è anche il tempo per uno scambio di battute con Nada (storica signora della canzone italiana). Privilegiati osservatori, assistiamo al dialogo:
Nada – Bravo Max, bell’idea davvero, complimenti.
Max Gazzè – Grazie, in realtà una cosa simile l’avevamo fatta lo scorso anno, sempre qui a Firenze, con un altro capolavoro, Atom Earth Mother dei Pink Floyd. Si tratta di operazioni particolari, coraggiose, in un certo senso: non basta la musica, si prova a raccontare qualcosa, a catturare l’attenzione del pubblico verso una storia, cosa che ormai non fa nessuno e che, invece, sarebbe necessario.
N – Hai ragione. Il bello è che la gente apprezza queste cose, ma raramente vengono proposte. Si preferisce fare cose semplici, quasi nella convinzione che il pubblico sia limitato. Lo vedo anch’io con le serate teatrali che faccio: la gente ha fame anche di questo. E poi, la narrazione, la fantasia, il sogno, sono elementi importanti, irrinunciabili.
MG – Il concept, l’idea di un concetto forte che stia dietro un’opera è stato abbandonato negli ultimi anni, ed è un vero peccato. Questione di marketing, forse, di tendenze. Però è necessario cercare di proporre sempre cose in cui crediamo, cose belle. Bisogna avere il coraggio di riproporre le cose, magari non facendole alla stessa maniera in cui venivano fa e negli anni Settanta, rendendole vive, presenti, in qualche modo.
N – Reinventandole, certamente. Guardando sempre avanti. Di cose belle da fare, poi, ce ne sarebbero sempre tante…
MG – Per me, ristudiare The Lamb è stata un esperienza pazzesca, perché sia musicalmente sia dal punto di vista della scrittura è un’opera interessantissima, da cui si può solo imparare. Come del resto è accaduto l’anno scorso con i Pink Floyd.
Nel frattempo i Virginiana Miller hanno iniziato a suonare e il volume non consente più di dar vita a conversazioni elaborate… Con Max al fianco, raggiungiamo i camerini: ci accoglie in modo naturale, così come, nei minuti precedenti, si era rivolto ai fans che lo avevano circondato affettuosamente. Ci sediamo, in sottofondo il concerto prosegue.
Possibilia – Complimenti per il concerto, un’iniziativa originale Max Gazzè – «Grazie, come dicevo a Nada, i concept non si fanno più, prevalgono altre forme si spettacolo, assai più d’intrattenimento, in cui la narrazione è rarefatta o diluita. The Lamb invece era, a quei tempi, e continua a esserlo ora, una sfida, un tentativo di spettacolo “totale”».
– In effetti, l’impressione era più quella di un concerto lirico, “chiuso” in qualche modo. L’interpretazione sta nell’esecuzione, non nell’interazione diretta col pubblico… – «Esatto. Qui si tratta di suonare nel miglior modo possibile questo disco, pietra miliare del rock, che ha una propria unicità, essendo, appunto un concept. Non facevamo uno spettacolo per far ballare la gente, proprio un’altra cosa».
– In questo ci siete perfettamente riusciti. Siamo qui, però, non per raccontare il concerto appena concluso, ma te, la tua vita d’artista, i tuoi progetti. Sei un cantautore, in un certo qual modo, ma ti distingui dagli altri, anche della tua generazione, per il fatto che sei uno strumentista, un bassista peraltro molto bravo.
– «Ti ringrazio… In effetti, l’essere bassista comporta l’avere un approccio melodico completamente diverso rispetto a chi suona altri strumenti, come il pianoforte o anche la stessa chitarra. Devo dire che questo l’ho notato anche nel lavoro di altri bassisti compositori, che spesso non scrivono sviluppando sequenze di accordi, ma creando intrecci melodici non scontati. Se pensi a Cara Valentina, l’andamento melodico è strettamente legato alla sequenza dei bassi. Allo stesso modo, Il solito sesso è una canzone scritta su sei tonalità diverse… un sacco di accordi!»
– In questo senso, il tuo lavoro sembra, se ci passi il termine, beatlesiano, in senso profondo. Dei Fab Four non prendi la scorza esteriore, come molto pop britannico, ma evidenzi un analogo interesse per brani di grande raffinatezza compositiva e, al contempo, facili da ascoltare, sempre “freschi”…
– «Cerco sempre di seguire un flusso, che nasce quasi sempre sulla scorta di sperimentazioni. Mi metto a lavorare su ipotesi e poi, da lì, avviene qualcosa: non è che il momento creativo sia premeditato, le cose escono da sole. Si arriva a un punto in cui la composizione è lì, esiste, e io non posso fare altro che contemplarla, cercare di interpretarla al meglio».
– Arrivi al punto in cui sei tu ad andar dietro alle idee…
– «Esatto. Cerco in qualche modo di portarle giù da un mondo intraducibile, o forse l’esperienza, il talento musicale che si possiede sta proprio nel riuscire a tradurre in note musicali e timbri sonori quel qualcosa che nasce altrove e che è difficile da traslare».
– Ti ritieni un compositore “d’ispirazione” o “muscolare”? Ti metti a scrivere oppure ti lasci cogliere di sorpresa dall’idea?
– «Non c’è mai un modo per prevedere, premeditare un momento creativo. L’invenzione dura pochi secondi, la si deve cogliere, afferrare. Solo in seguito subentra il lavoro di traduzione, di levigazione, cercando di ritornare a quel linguaggio che ti ha folgorato nel momento dell’ideazione».
– De André paragonava la scrittura alla pesca con le reti. Una volta rimesse in barca col pescato, è necessario scegliere ciò che va bene e rigettare in acqua tutto ciò che è inutile o ancora immaturo.
– «Certamente. Si deve scartare oppure avere la capacità di sintetizzare in linguaggio comprensibile un qualcosa che può essere passibile di moltissime interpretazioni. In fondo, non c’è una ragione prima per cui nascono queste cose, c’è un bellissimo detto giapponese che recita: “Se vuoi sapere dove nascono i fiori, neanche il dio della primavera lo sa”. Tu puoi osservare le cose mentre nascono e veicolarne, almeno provarci, determinati significati emotivi. La musica è un’arte particolare, evocativa, l’armonia tocca certi stati d’animo in modo profondo».
– La musica è un’arte subdola, in un certo senso: si appiccica alle esperienze ed è emotivamente formativa. Per questo hanno ancora successo la canzoni dei cartoni animati, perché ci mettono in contatto con determinati periodi.
– «La musica prescinde dall’analisi. Essendo in prima istanza suono, supera qualsiasi controllo razionale ed entra in contatto immediatamente con le parti più interne di chi vi è sottoposto. La musica tocca e va a generare emozioni, un processo molto difficile da comprendere a fondo».
– È proprio per questo motivo che la musica, specie quando parla di sentimenti, dovrebbe essere molto attenta, non banalizzare… Lo diceva Frank Zappa, del resto: brutte canzoni d’amore insegnano ad amare male.
– «Anche questo è vero, indubbiamente. E, infatti, scrivere è un’enorme responsabilità. Per quanto mi riguarda, cerco sempre di stare molto attento: non voglio “parlare d’amore”, ma mi limito a descrivere degli stati emotivi incondizionati, è un lavoro spesso molto sottile».
– C’è da dire che le tue canzoni d’amore sono sempre molto delicate, precise. Pensiamo a Il solito sesso, o anche all’ultima Mentre dormi.
– «Quest’ultimo brano è, in questo senso, esemplare per me: forse non descrive una condizione unica di trasferimento affettivo… Si riferisce uno stato più primordiale, prima ancora che certe cose vengano incasellate nei consueti spazi retorici. Mi ripeto: la musica ha il compito delicato di generare stati d’animo».
– Una musica può fare… ma può fare anche male!
– «Verissimo, per questo si deve avere molta responsabilità, gusto e onestà nel farla. Pensare che in ambiti mistici, metafisici, la musica è uno strumento per tramandare concetti, spesso importanti. Come per la poesia, nelle culture orali ha sempre svolto una funzione legata al passaggio di sapere, di sapienza».
– Cambiando argomento: quanto ti è durata la gavetta?
– «La sto ancora facendo… [ride] Sto imparando adesso a essere giovane! La gavetta dura quanto deve durare, è difficile parlarne in senso generale perché, specie in ambito artistico, i percorsi sono sempre personali, non perfettamente definiti».
– Te lo chiediamo perché Possibilia ha intenzione di proporre una serie di riflessioni sul concetto contemporaneo di gioventù e la fase della gavetta ci sembra determinante in tal senso.
– «Io ho cominciato molto presto a suonare, quando vivevo ancora in Belgio. Prima di tornare a suonare in Italia ho viaggiato moltissimo: Belgio, Olanda, Inghilterra, Francia. Sono stato per qualche anno con una band inglese, ho suonato jazz, molti generi musicali, facendo anche il turnista».
– L’esperienza fuori ti ha aiutato, appari come un cantante più “aperto” di altri…
– «Probabilmente sì, la mia formazione musicale nasce in Inghilterra e in Belgio. Non lo dico per darmi arie, è così: sono cresciuto là, in quel contesto, i dischi che ho ascoltato erano per lo più di musica britannica. Poi, ovviamente, gli orizzonti si sono ampliati. Per un musicista, guai se non fosse così».
– Anche il tuo modo di suonare il basso è peculiare, sempre molto legato alla canzone e non all’esibizione virtuosistica.
– «Sono d’accordo. Per me quello che conta è la riuscita del brano, non la soddisfazione personale d’aver dimostrato la perizia tecnica. È una cosa molto importante, legata ai bassisti che mi hanno, in qualche modo, ispirato. Su tutti, penso a Jack Bruce, ma i modelli sono assolutamente svariati e spesso contemporanei. Ho ascoltato moltissimo gli Weather Report di Jaco Pastorius e, allo stesso tempo, studiavo Charlie Mingus, e quindi jazz. E poi Marcus Miller e, ovviamente, Paul McCartney, irrinunciabile».
– E come autori di canzoni?
– «Onestamente, non sono mai stato un beatlesiano: direi che i Beatles li ho seguiti, certo, ma ho imparato ad apprezzarli veramente nel corso degli anni, finendo poi per studiare certi loro brani. In definitiva, posso affermare di essermi ispirato tanto a Pastorius quanto a McCartney, perché le linee di basso dei Fab Four erano stupende, spesso semplicissime ma geniali, nessuno aveva mai pensato di suonare in quel modo prima di allora».
– C’è da dire che Paul suonava con il batterista più geniale della Storia.
– «Geniale e sottovalutato. È molto importante per un bassista il rapporto sonoro, musicale, che riesce a instaurare col batterista. È importante raggiungere un equilibrio per non risultare freddi, distanti».
– Sembri molto legato agli anni Settanta.
– «Direi di sì. Come ascolti, oltre a chi ho già citato, devo dire di aver coltivato molto la passione per i Genesis, per Peter Gabriel, ma anche i musicisti che suonano o hanno suonato con lui. Impossibile dimenticare Tony Levin, da questo punto di vista, uno dei bassisti che mi ha più influenzato: anch’io uso bassi Musicman, adoro quel suono. E allo stesso tempo, devo citare i Police, anche se, al loro scioglimento, ho seguito più le evoluzioni di Stewart Copeland piuttosto che la carriera, grandissima, di Sting».
– Per non dimenticare Andy Summers, il meno citato, ma non meno geniale dei Police.
– «Anche quello un miracolo. Vedi, l’importante non è essere bravi, ma l’alchimia che si riesce a creare. Puoi anche prendere tre mostri di bravura, metterli insieme e non ottenere niente di buono. Se invece trovi dei musicisti “giusti”, il livello tecnico passa necessariamente in secondo piano».
– E in Italia? Chi ascolti?
– «Ho smesso, ultimamente, di seguire con troppa attenzione. Però ci sono cose che mi piacciono, che mi sono piaciute. Andando qualche anno indietro penso ai Bluevertigo, qualcosa dei Baustelle, di certo i Subsonica. Però è difficile seguire il panorama: il mondo della musica è molto cambiato dal punto di vista del consumatore, in più, facendo questo mestiere, si ha sempre meno tempo a disposizione per dedicarsi a una fruizione tranquilla. Senza contare che le novità fanno sempre molta fatica a uscire».
– Che cosa dovrebbero fare un artista o un gruppo, con un bel disco in mano non ancora pubblicato, in Italia al giorno d’oggi?
– «Non fuggire: restare qua, con caparbietà, volontà. Cercare la coscienza e la convinzione di quel che ha fatto. Io credo molto nella determinazione, nel pensarsi convinti di ciò che si sta facendo. La discografia non supporta nessuno, e sta agli artisti creare condizioni per poter far sentire la propria musica: le difficoltà sono sia dal punto di vista live che da quello discografico. Non bisogna arrendersi e bisogna sbattersi, sperando di trovare l’onda giusta. E porsi obiettivi a breve scadenza, non troppo lontani per non restare delusi, ma sempre cercando di andare avanti».
– Stesso discorso vale per le testate nuove come la nostra, no?
– «Proprio così. Continuate e andate sempre avanti. Ciao, Possibilia».
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