(foto Vittorio Di Giacinto)

Che fare? La partecipazione diretta
Vecchi da rottamare in un Paese governato da vecchi. E i giovani? “Dovrebbero innescare una rivolta violenta”.

di Igor Vazzaz

novembre 2010 

Massimo Fini: 67 anni [al momento dell’intervista], giornalista, scrittore, negli ultimi anni anche autore e attore teatrale, portando sulle scene quello che, per un guazzabuglio tipicamente italiano, era stato censurato sulla tv pubblica, Cyrano, trasmissione televisiva declinata in spettacolo. Difficile dare una definizione esauriente di questo “irregolare” della stampa e della cultura italiana. Bestia rara, Fini, che tende, beandosene un po’, a rifuggire le semplici classificazioni, politiche o ideologiche, rivendicando una libertà e un nomadismo di pensiero che gli acquisiscono in egual misura amici e nemici, a destra come a sinistra. Protagonista di prese di posizione tutt’altro che scontate, lo intervistiamo su uno dei temi che, direttamente o di riflesso, lo hanno interessato.

– La gioventù, categoria insidiosa, specie nell’Italia contemporanea: se ne dovessi dare una definizione, quale sarebbe?
«Sarebbe opportuno tornare alla ripartizione romano-latina, in cui l’infanzia era considerata l’arco d’età dalla nascita ai quattordici anni, la giovinezza sino a quarantasei, la maturità sino a sessanta, la vecchiaia oltre. Però si tratta di un punto di vista molto lontano. Viviamo in un’epoca in cui le distinzioni sono saltate: pensiamo il Sessantotto, con la sua esaltazione dei giovani (dato che la categoria era divenuta quella dei nuovi consumatori) e la conseguente negazione della vecchiaia. Oggi un vecchio deve comportarsi come un giovane, consumare come un giovane, fare maratone in cui s’infatua a scopare anche se non ne ha più voglia. Se invece è vecchio e lo dimostra, è automaticamente out. D’altro canto, questo prolungamento, velleitario e fittizio, di una falsa giovinezza, fa sì che vecchi non si tolgano mai dai coglioni. E ne hanno anche delle buone ragioni, dato che se dimostrano d’essere quello che sono vengono considerati automaticamente da buttare».

– Impossibile parlare di gioventù senza definire il suo opposto.
«Un tempo il vecchio era il custode del sapere, aveva un ruolo definito e rispettato. Oggi non è più così, viene costantemente superato, complice l’inarrestabile innovazione tecnologica. Carlo Maria Cipolla, storico, sosteneva che il vecchio “nella società agricola è il saggio, nella società industriale un relitto”. Se aggiungiamo poi che il nostro è il Paese col più basso tasso di natalità al mondo, anche rispetto allo stesso mondo occidentale, il quadro è abbastanza sconfortante. Se poi ci confrontiamo con l’Iran, le nazioni africane in genere, il divario è abissale, anche come età media della popolazione».

– Il confronto tra vecchiaia e gioventù è al centro di un tuo libro.
«Sì, è Ragazzo. Storie di una vecchiaia [Venezia, Marsilio, 2007, NdR], in cui parlo della vecchiaia, di cosa è sempre stata, ma anche di come si è ridotta oggi, al di là della retorica per cui “vecchio è bello” o il vecchio non esiste. Un sondaggio recente ha riportato che la maggioranza degli ottantenni non si ritiene vecchia, anche se la vecchiaia resta sempre un’età difficile da vivere. Tanto più se si è soli, come accade sempre più spesso».

– C’è un legame tra la perdita di centralità degli anziani e il nostro modo di relazionarci con il mondo. Finché il racconto rappresentava un passaggio di esperienza, la terza età era vista come una risorsa inestimabile; in un’epoca in cui l’informazione è massiva, imperante e brucia tutto, la memoria perde valore e funzione…
«Certamente, quelle erano società a trasmissione orale, la narrazione era il mezzo più alto di comunicazione. Adesso viviamo in società a trasmissione virtuale, neppure scritta, per cui il vecchio è del tutto inadatto. Qui incontriamo un secondo paradosso: nonostante l’irrimediabile svalutazione dell’anzianità, noi, e parlo dell’Italia, abbiamo una classe dirigente di vecchi. Il presidente del Consiglio ha 74 anni, il suo consigliere principale, Letta, ne ha 75; sono considerati “giovani leoni” personaggi che si avvicinano, quando non li hanno superati, ai 50. Se pensiamo a società antiche, in cui a comandare erano giovani ­ che però tenevano in altissima considerazione gli anziani e i valori che rappresentavano ­ e vediamo la nostra, che, da un lato, squalifica ed emargina i vecchi, mentre, dall’altro, non se li leva più di torno, possiamo ben capire in che situazione assurda ci troviamo: un mondo che esalta il giovane, ma fa comandare a oltranza i vecchi.
Quanto all’informazione, si deve ammettere come questa sia eterodiretta, mediata, ti attraversa senza lasciarti praticamente niente. Il contrario del racconto, quello del nonno, quello vissuto, che è, o almeno era, esperienza».

– La notizia non è esperienza, come a dire che l’informazione non forma né informa…
«Io direi che disinforma, sia per eccesso d’informazione – perché troppe notizie fanno solo aumentare a dismisura il rumore, senza rendere nessun servizio – sia perché non siamo in nessun modo in grado di controllare l’informazione».

– Detto da chi di mestiere fa il giornalista, è una considerazione amara…
«Molto amara, sicuramente. Io credo che sui media non ci si debba fare troppe illusioni né troppa retorica. Il primo giornale ufficiale su carta stampata risale al 1631: era La Gazette, diretta da Théophraste Renaudot, praticamente in mano al cardinale Richelieu. Anche il primo quotidiano tedesco, di cui adesso mi sfugge il nome [Relation aller Fürnemmen un gedenckwürdigen Historien, pubblicato da Johann Carolus, NdR], era in mano a un altro potentato. I giornali, proprio per questo, godevano di pessima stampa, il pubblico era, e anche questo è un paradosso, molto più scaltro di adesso. Pensa che il primo quotidiano italiano, fondato da Luca Assarino nel 1646, s’intitolava Il Sincero, come a dire “noi vi diciamo la verità, gli altri raccontano palle”: non era un caso. Purtroppo, Acciarino era una spia al soldo del principe di Piemonte: mai credere a chi si proclama sincero. Trovo assai difficoltoso, infatti, fidarmi di giornali che si chiamano Libero, per esempio…»

– In effetti… Però è anche vero che per i giornali il nome è indicativo ed è ovvio che esprimano certi concetti. Tu stesso hai scritto per L’Indipendente.
«Sì. Per la verità L’Indipendente, il primo, quello diretto da Feltri, era davvero indipendente. Solo dopo lui si è sostanzialmente venduto a Berlusconi. Lasciando il caso singolo, è comunque inevitabile che, al giorno d’oggi, una rete televisiva o un organo d’informazione che ambisca ad avere grande visibilità abbiano bisogno di investimenti talmente grandi da favorire la concentrazione nelle mani di chi ha più potere».

– Questo discorso si lega a certe tue riflessioni sulla democrazia, penso al tuo libro Sudditi. Manifesto contro la democrazia (Venezia, Marsilio, 2004). «Certo. Non è un caso se i giornali si chiamano anche “strumenti del consenso”. Utilizzati al solo scopo di rafforzare, guadagnare consensi, in senso elettorale ma non solo, il compito di informare correttamente è, quando va bene, in secondo piano».

– Senza contare che il problema giovanile, per così dire, si rispecchia anche nel mondo del giornalismo, dove la gavetta è infinita e, soprattutto, coincide con la fame.
«Siamo in una situazione ai limiti dell’indecenza. Gli spazi sono pochissimi, e anche i ragazzi con delle qualità, che magari riescono a proporre cose interessanti e lavorare bene, presto o tardi sono costretti a cambiare mestiere o ad andare via. Il meccanismo a collo d’imbuto non è proprio soltanto della politica italiana, anzi».

– La difficoltà di selezione è comunque comune a tutti gli ambiti, pensiamo all’università.
«Mio figlio ha tentato la carriera accademica, da matematico, ma si è trovato, dopo vari anni di vassallaggio, con le strade chiuse: concorsi cui gli veniva detto di non partecipare, una situazione imbarazzante. Dopotutto, il vecchio sistema baronale non è mai interamente tramontato.
Ma è l’intero Paese a versare in situazione disperata: abbiamo un presidente del Consiglio che ha passato gli ultimi quindici anni a squalificare la magistratura, in una regressione di cultura istituzionale senza precedenti».

– Che cosa dovrebbero fare i cosiddetti giovani, secondo te?
«Se ne avessero le energie e le capacità, dovrebbero innescare una rivolta violenta. Altrimenti verranno tenuti a bagnomaria sino a che non saranno vecchi, come sta in effetti accadendo. Naturalmente in questa loro inerzia giocano un ruolo tante cose, la struttura della nostra società, l’educazione, l’istruzione. Però, se si accentuasse la crisi economica, come peraltro non è escluso, credo che potremmo assistere a qualcosa di nuovo, che il tappo davvero possa saltare».

(foto Vittorio Di Giacinto)
(foto Vittorio Di Giacinto)

– Certo che se il tappo saltasse, non lo farebbe più su scala nazionale…
«Il tappo salta su scala occidentale. È l’Occidente l’àmbito: stiamo parlando dell’Italia, che può anche essere un caso particolare, ma è il modello occidentale ad aver generato e a soffrire di queste contraddizioni sempre meno sanabili.
Un sistema basato sull’accumulo ininterrotto, su un’idea di progresso inarrestabile, ma soprattutto sull’invidia come molla del progresso sociale. Lo dice molto bene Ludwig von Mises, uno dei teorici più estremi ma anche più coerenti dell’iniziale capitalismo. E dice anche un’altra cosa di questo modello, ossia che proponendo il principio per cui non è bene accontentarsi di ciò che si ha, si condanna inevitabilmente l’uomo a non essere felice. Se non si fa a tempo a raggiungere un obiettivo che si deve di necessità puntarne un altro, è ovvio che non c’è tregua se non la morte. Un gruppo musicale, tempo fa, aveva sintetizzato bene tutto questo in uno slogan: “Produci ­ consuma ­ crepa”, non ricordo chi fossero…»

– I Cccp ­ Fedeli alla linea, punk filosovietico e melodica emiliana, pieni anni Ottanta. Pensa che il loro cantante e leader carismatico, Giovanni Lindo Ferretti, si è scoperto pensatore ultracattolico e scrive per Il Foglio di Ferrara…
«Vabbè, faccia quel che gli pare. Il “Produci – consuma – crepa” resta comunque una fotografia perfetta di un certo sistema che non può che produrre insoddisfazione, frustrazione, infelicità».

– È l’ipertrofismo implicito della produzione capitalistica.
«Non solo del capitalismo, anche del marxismo, se fosse sopravvissuto. Entrambi, del resto, sono facce della stessa medaglia, quella dell’industrialismo, modelli che hanno pensato di vedere nella produzione industriale (nascono infatti da quella rivoluzione) la chiave per garantire una vita piena e felice ai popoli. Mi pare evidente che si trattassero, in buona o cattiva fede, di utopie irrealizzabili. Entrambe fondate sull’economia, sul concetto che l’uomo possa essere ridotto soltanto alla sfera economica: è una vera beffa pensare che, poi, il capitalismo stia fallendo proprio sul campo dell’economia, quello eletto come suo ambito principale».

– Tu sei una sorta di “problema” per la stampa italiana, dato che sia da destra sia da sinistra sei guardato con un certo sospetto, quando non con censura.
«Non so se il problema sono io, che non appartengo a nessuna delle due “bande” imperanti. Forse il problema sono loro, nel senso che chi ci rimette in termini di spazio e di lavoro è il sottoscritto. Buffo: ai tempi della lottizzazione, con tre “chiese”, lavorare non era un gran problema, perché si creavano comunque degli interstizi, degli spazi. Adesso, con due parti contrapposte è durissima per chi non si allinea, per chi non si conforma.
Quando lavoravo al Giorno diretto da Guglielmo Zucconi, avevo una rubrica dove scrivevo delle cose pazzesche, anche sui partiti: una volta inneggiai al generale turco che li aveva aboliti per cinque anni, per poi ripristinarli dopo un periodo passato a riorganizzare. E Il Giorno era comunque il giornale dell’Eni. Alcuni miei pezzi sarebbero stati “forti” per qualsiasi altra testata. Zucconi, quando lo accusavano di essere troppo prono ai partiti, diceva “Leggete quello che scrive Fini”, quando invece arrivavano proteste per i miei articoli, replicava: “Sì, ma Fini è un pazzo, non dovete prenderlo sul serio”. Era una paraculata, ovviamente, ma permetteva di pubblicare cose eterodosse. Adesso questo non accade, specie se si considera il bacino d’utenza delle testate. Ma era tutto diverso: senza voler azzardare paragoni improvvidi, negli anni Settanta sul Corriere scriveva Pasolini; adesso chi abbiamo?»

– Sono le condizioni a essere cambiate. Pensa un po’ al paradosso implicato dalla parola “anticonformista”.
«E infatti la rubrica che tenevo sull’Europeo si chiamava Il conformista. Adesso il ribaltamento è talmente diffuso che è impossibile orientarsi. C’è il vuoto del consenso e le voci dissonanti sono quasi sempre relegate a spazi sempre minori».

– Hai ancora progetti teatrali? L’esperienza di Cyrano è stata interessante.
«Sì, stiamo lavorando con un’attrice e un regista per provare a tradurre in forma scenica il cosiddetto “Fini-pensiero”. Una sfida interessante, anche perché il teatro, al contrario della virtualità imperante a livello massmediatico, è contatto con il pubblico, presenza fisica, voce. Una versione, in ambito artistico, di qualcosa che dovremmo sperimentare in tutti gli altri campi: la partecipazione diretta, l’unica strada per ripensare un mondo migliore, o almeno provarci, giovani e vecchi».

Igor Vazzaz, toscano di origine friulana, si occupa a vario titolo di teatro, tv, musica (come cantante e autore), satira, cultura, collaborando con l’Università di Pisa e varie testate. www.igorvazzaz.blogspot.com, www.myspace.com/tarantola31

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