di Samuel Cogliati

Forse l’Italia attuale è in una situazione più simile al secondo dopoguerra di quanto si creda. Da più parti, risuonano ogni giorno lamentele per le inefficaci politiche industriali del governo, dell’opposizione, delle maggiori parti sociali. Azione e speranza economiche sono affidate alla leggendaria intraprendenza degli italiani: idee, ingegno, visioni, pragmatismo, capacità di arrangiarsi. Con uno Stato efficace nel coadiuvarle, nel ridistribuire le risorse, nell’evitare sprechi, nell’ottimizzare il valore delle cose e delle persone, l’Italia sarebbe una vera “tigre” europea. Ma alla fine il Belpaese potrebbe cavarsela anche questa volta e restare in equilibrio, se non altro perché raramente si sbilancia.

L’Italia del 2010 e quella di sessant’anni fa sono accomunate dalla necessità di un rilancio capillare. Non solo politica ed economia: serve anche un potente rimescolamento sociale. All’epoca, si trattava di completare l’unificazione iniziata un secolo prima e di uscire dal provincialismo. Oggi occorre che questo Paese miope e asmatico smetta di guardarsi l’ombelico, ma si agganci con umiltà alla globalizzazione, per non subirla soltanto.

Ciò che differenzia molto queste due Italie, è però la mentalità dei singoli. Negli anni Cinquanta, emergere e conquistare quanto meno un diverso statuto sociale era una priorità. Per gli italiani questo significò anche studiare, formarsi, crescere.
Oggi, molti occidentali sperano innanzi tutto di conservare il loro standard di vita privilegiato e di non sprofondare nell’indigenza dell’80 per cento del pianeta.

Non c’è nulla di male nel difendere le proprie vacanze o un po’ di salutare riposo. Ma è cosa ben diversa dalla cultura del weekend sistematico, che inizia il venerdì a pranzo, o del “ponte” ad ogni costo. Non si tratta di lavorare di più come predicano alcuni leader politici e finanziari. Il punto sono la voglia e la capacità di investire in ciò che facciamo. Non banalmente soldi, ma un investimento affettivo, un’aspirazione umana. Per molti, il lavoro ha smesso di essere un luogo in cui mettere in gioco qualcosa di sé: le proprie ambizioni, i desideri, la speranza di realizzare ciò che siamo e sappiamo fare. Per troppi, il lavoro è diventato un tempo neutro o gravoso, dove tutto pesa e nulla prende forma, da far passare il più rapidamente possibile, in attesa della fine settimana. È questo disimpegno, sciatto e negletto, che impregna la cultura del weekend. È per questo che il weekend si è trasformato da legittima necessità di riposo, svago e disintossicazione dei neuroni, in diritto irrinunciabile, scopo ultimo della settimana. Ma settimana dopo settimana, cinque giorni alla volta, la vita se ne va…

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