testo e foto di Giorgio Fogliani
• 23 febbraio 2024 •
Assaggiare vini invecchiati è difficile. Per ristoranti ed enoteche accantonare molte bottiglie è complesso, e se lo fanno i ricarichi sono comprensibilmente alti; le aziende produttrici, con poche eccezioni, hanno sempre più fretta di mettere sul mercato i propri vini; e quanto ai bevitori, mi sembra che abbiano essi stessi meno pazienza di un tempo, o che subiscano meno il fascino di una lunga attesa.
C’entrano certamente la velocizzazione e la frammentazione delle nostre vite, la nostra diversa interazione con il tempo; c’entra magari qualche scottatura con una bottiglia conservata a lungo e poi rivelatasi deludente – a chi non è capitato? – che fa pensare amaramente «l’avessi bevuta prima!».
C’è poi una questione generazionale: la possibilità di assaggiare annate mature è essenzialmente affidata alla nostra capacità di accantonare bottiglie e attendere il tempo necessario alla loro evoluzione. Degustare vini più vecchi di noi – o antecedenti al momento in cui abbiamo iniziato a costruirci una cantina – è però sempre più difficile, perché è inevitabilmente legato alla propensione a condividerli di qualcuno che abbia iniziato questo lavoro prima di noi. Ma il continuo aumento dei prezzi dei vini non incoraggia (o rende più cara) quest’attitudine alla condivisione, creando una sorta di gap generazionale: per un giovane degustatore, aprire bottiglie di venti, trenta o quarant’anni, esperienza incredibilmente formativa, è raro e costoso, e lo sarà sempre di più.
Il caso virtuoso dei fratelli Tedeschi
I produttori hanno da questo punto di vista un’opportunità importante, perché possono dotarsi di uno storico, investimento oneroso quanto lungimirante. È ciò che hanno deciso di fare, per esempio, i fratelli Tedeschi, azienda storica della Valpolicella, che hanno da poco inaugurato il proprio «archivio» in una sala interrata all’interno della cantina, in grado di ospitare 6.800 bottiglie rivolte a collezionisti, ristoratori e appassionati. Lo scopo dell’iniziativa (dedicata al più prestigioso dei vini veronesi, l’amarone) non è però solo celebrativo, precisa Riccardo Tedeschi, ma «è anche la volontà di creare un luogo che proponga un punto di vista diverso sul nostro amarone», un vino le cui potenzialità evolutive, sostiene con buone ragioni, non sono totalmente riconosciute.
Ho avuto la fortuna di partecipare alla degustazione verticale che ha inaugurato l’archivio, un percorso che in quindici bottiglie ha attraversato quarantatré anni di storia, dal 2017 al 1974. L’esperienza è stata preziosa perché mi ha permesso di riflettere su diversi aspetti attorno all’amarone e non solo.
Come sta l’amarone?
Vino per un certo periodo osannato da pubblico e critica, e che ha visto un’impennata produttiva (volumi raddoppiati tra 2009 e 20221), l’amarone vive oggi in una posizione delicata. Le tendenze del mondo del vino, si sa, vanno da un’altra parte, cioè verso tenori alcolici contenuti, leggerezza gustativa, asciuttezza, minor concentrazione; anche le nuove direttrici della cucina internazionale sono meno inclini all’abbinamento con un vino come l’amarone. Il rischio di disamorarsi di un vino con la stessa nonchalance con cui ce ne si è innamorati esiste.
Per renderlo più “contemporaneo”, diverse aziende provano – non da oggi – a interpretare l’amarone in senso territoriale, vinificando singole sottozone, cru o vigneti (una questione sempre più attuale: in questo articolo uno spunto di riflessione generale). Non è un’operazione scontata, perché (tentare di) leggere la territorialità in un vino come l’amarone, al quale l’appassimento conferisce un’inevitabile dimensione “tecnica”, è più difficile che in altri; ma non per questo priva di interesse né di riscontri.
Tra gli amaroni di Tedeschi, per esempio, i cru La Fabriseria e Capitel Monte Olmi sembrano effettivamente mostrare caratteri organolettici differenti, che l’azienda sta peraltro indagando attraverso uno studio sulla caratterizzazione aromatica delle proprie uve, vigneto per vigneto, condotto assieme all’Università di Verona. Tuttavia, ho l’impressione che, oltre un certo limite, l’accumulo di etichette di amarone rasenti l’esercizio di stile, e possa rivelarsi confusionario.
Una delle questioni più scottanti (il proverbiale elefante nella stanza) riguarda il tenore alcolico dell’amarone. I dati sui diversi millesimi assaggiati confermano l’impressione gusto-olfattiva di una cesura all’inizio degli anni Duemila, quando la gradazione media passa dal 15% al 16, in qualche caso al 17 (non si tratta certo di una prerogativa dell’azienda, ma di un fenomeno generalizzato). C’entra sicuramente il cambiamento del clima, che dal Terzo millennio si è avvertito in maniera ancora più flagrante, ma anche la scuola di pensiero che in quegli anni inseguiva la concentrazione attraverso tutti i mezzi: a partire dalla scelta dei vitigni (corvina e corvinone hanno progressivamente eroso quote alla rondinella e soprattutto alla molinara, succosa e poco colorante e oggi non più obbligatoria nell’uvaggio), fino alla gestione del vigneto (vigoria della pianta, diradamento2, forme d’allevamento, gestione fogliare).
Proprio questo è il punto per Carlo Venturini di Monte Dall’Ora, azienda di Castelrotto, nella zona classica: «Il discrimine non è il tenore alcolico in sé e per sé, ma il delicato equilibrio gustativo tra alcol, acidità e zucchero. Per non stressare eccessivamente la pianta ed evitare l’iper-concentrazione la nostra idea, imparando dal passato, è stata di privilegiare il tradizionale allevamento a pergola e di reintrodurre gli alberi in vigneto, con la vite maritata a mandorli, frassini, ciliegi e aceri. Crescono così la biodiversità, l’ombra e l’umidità; inoltre teniamo sempre il terreno coperto e non cimiamo. Ma ottenere un amarone equilibrato passa anche per la corretta scelta del vigneto da cui produrlo e per l’appassimento, che non dovrebbe essere forzato né troppo rapido. Negli anni, i nostri amaroni si sono mantenuti tra il 15 e il 15,5% di alcol e sotto i 5 g/l di zucchero: ne produciamo poco, ma non abbiamo mai notato né un disamore dei consumatori né difficoltà nelle vendite».
Quella del 15/15,5% sembra essere percepita come una sorta di soglia critica anche da Marinella Camerani, storica viticoltrice della valle di Mezzane (Corte Sant’Alda), che si augura un disciplinare più restrittivo e preciso in grado di riavvicinare l’amarone a un vino di territorio.
Il dibattito
Il dibattito in zona si è inaspettatamente riacceso, con il vicepresidente del Consorzio, il Master of Wine Andrea Lonardi, che ha evocato «un cambio stilistico e culturale, in grado di collocare l’Amarone della Valpolicella tra i fine wine internazionali» e il presidente Christian Marchesini che parla esplicitamente di «contenere il grado alcolico».
Ma è una diatriba tutt’altro che recente. In un’intervista del 1996 Alessandro Masnaghetti chiedeva a Nino Franceschetti, decano degli enologi valpolicellesi e vera e propria memoria storica locale, cosa pensasse di un’eventuale diminuzione del grado minimo dell’amarone. Franceschetti rispondeva: «Sono favorevole. All’inizio io ho fatto la guerra per innalzare il grado minimo dell’amarone, però oggi siamo di fronte ad una scelta: o facciamo dell’amarone un vino secco da fine pasto, oppure dobbiamo cercare di inserirlo tra i grandi vini rossi a 13-13,5° alcol. E credo che quest’ultima sia la via giusta»3.
A distanza di quasi trent’anni, si ha l’impressione di aver fatto un lungo giro che ci ha riportati alla casella di partenza.
Amaroni del secolo scorso
Alla luce di tutto questo, l’assaggio degli amaroni di Tedeschi antecedenti al Duemila è stato rivelatore.
Prima di tutto in ragione di alcuni vini francamente straordinari per eleganza ed espressività; Capitel Monte Olmi 1998 e La Fabriseria 1995 – annata considerata stellare in Valpolicella – sono vini luminosi, tra il floreale e il tartufato (più mentolato il primo, più boscoso il secondo); la trama è setosa, fresca, distesa. L’amarone “d’assemblaggio”4 1985 e La Fabriseria 1983 hanno un profilo leggermente più scuro e pepato, ma hanno un’acidità e una grinta insospettabili; il 1979 è crepuscolare ma nobile, tra china e arancia rossa, note linfatiche e balsamiche.
In secondo luogo proprio per il carattere “trasversale” di questi vini, che mi sono parsi ottimi vini tout court, ancor prima che ottimi amaroni (come a dire che i “fine wine” li avevamo già in casa, ma abbiamo guardato altrove). La chiara marcatura dell’appassimento negli amaroni giovani, che ce li rende riconoscibili e rassicuranti ma anche prevedibili e in parte fuori moda, come abbiamo visto, è in questi amaroni maturi assente, o tutt’al più in tralice, e al residuo zuccherino fa posto una freschezza insospettabile. Merito del ruolo salvifico – e mai abbastanza celebrato – dell’ossigeno? Merito del talento di un vignaiolo? Merito di un clima diverso? Presumibilmente, come sempre, si tratta di una combinazione di fattori.
Retromarcia?
La sfida futura dell’amarone sembra quindi essere questa: reinventarsi, e forse tornare sui propri passi. Non sarà facile, in primo luogo per ragioni tecniche (il clima, ancora), in secondo perché cambiare l’immagine di sé è impresa ardua. «L’amarone non è mai stato un vino quotidiano – sottolinea Federica Camerani (Adalia), produttrice a Mezzane di Sotto – e non va scambiato per tale. Dovremmo se mai capire perché siamo arrivati a produrre degli amaroni che non ci rappresentano più: le nostre uve, di per sé, esprimono complessità, non concentrazione.
Al tempo stesso dovremmo adattare la tecnica ai mutamenti a cui stiamo assistendo: se il clima ci obbliga a vendemmiare un mese in anticipo, non dovremmo forse ridurre proporzionalmente anche i tempi di appassimento?»
Tornare indietro, al di là della posa nostalgica che spesso appesantisce il mondo del vino, vorrebbe dire anche avere il coraggio di riportare l’amarone a ciò che dovrebbe essere: un vino d’eccezione, da produrre solo in determinate circostanze e in quantità limitate: non escluderei, infatti, che una parte delle sue attuali difficoltà di vendita fosse legata, oltre alle nuove tendenze gustative, a una sovrapproduzione, o quantomeno a un suo eccessivo peso (circa il 25%!) rispetto agli altri vini della zona. E, contestualmente, si potrebbero dedicare maggiori attenzioni (produttive, ma anche mediatiche) ai valpolicella da uve fresche, che se fatti con cura sono vini godibilissimi, perfetti ambasciatori del territorio (qualunque cosa si voglia intendere) e, per inciso, straordinariamente contemporanei.
Una postilla: semplificare è però una tentazione pericolosa, e i ragionamenti sull’alleggerimento dell’amarone, o sulla leggiadria di alcune vecchie annate, non implicano in automatico che i vini potenti e concentrati dei nostri anni non siano buoni o, che un amarone non sia buono prima di trent’anni (anche se lasciarne passare dieci rimane in generale una buona idea).
Alcuni lo sono eccome: La Fabriseria 2011, per tornare alla verticale di Tedeschi – ma si potrebbero fare altri esempi –, ha il 17% di alcol e 6,5 g/l di zucchero, sulla carta un mastodonte, ma è un vino ben definito, compiuto e saporito, anche grazie a un’acidità totale ragguardevole: 8,1 g/l. Sono, però, vini espressionisti, in un certo senso estremisti, e in quanto tali più soggetti alla variabilità di gusti e approcci.
L’assaggio dell’amarone più recente, Marne 180 2017 (assemblaggio di diversi vigneti), lascia peraltro intravedere una certa nuova propensione a una stilistica più improntata alla leggerezza. •
fogliani@possibiliaeditore.eu
1 Una crescita che va di pari passo con quella degli ettari vitati, ma che è anche una crescita “intra-territoriale”, dal momento che più o meno negli stessi anni la produzione di Valpolicella Doc si è dimezzata. Ancora più impressionante la crescita del Valpolicella ripasso, quasi triplicato, e che oggi, da solo, rappresenta poco meno della metà del vino prodotto in Valpolicella. Fonte: Consorzio per la tutela dei vini Valpolicella, dati disponibili online.
2 Un utilissimo contributo sul tema è quello di Maurizio Gily (La vite non sa leggere) sul numero 0 della rivista Versanti (2023).
3 L’originale era apparsa sul n. 28 di Ex Vinis, e poi ripubblicata dallo stesso Masnaghetti – che ringrazio per lo stimolante confronto su questi temi – su Enogea, IIs, n. 5, 2006. Una lettura preziosa per tutti gli appassionati della Valpolicella.
4 Recentemente ribattezzato con il nome di fantasia Marne 180. Il nome fa riferimento alla molteplicità di esposizioni dei vari vigneti da cui il vino ha origine.