Nicola Luisotti, direttore d’orchestra tra Napoli e San Francisco, si racconta.

di Dania Ceragioli e Ludovica Scaletti
foto di Luciano Romano

Il direttore d’orchestra sta sul podio non per insegnare o comandare, ma per servire l’arte e nonostante impugni una bacchetta, non esiste se non in sintonia con l’orchestra, il coro e tutto il resto del teatro. Si vede così il maestro Nicola Luisotti, nato a Viareggio nel 1961, direttore musicale del teatro San Carlo di Napoli e dell’Opera di San Francisco. La musica lo ha accompagnato fin da piccolo, quando suonava l’organo nella chiesa di Torre del Lago, lui bambino talentuoso figlio di una casalinga e di un falegname. Oggi si divide tra gli Stati Uniti e Napoli, accompagnato dalla moglie Rita, una “musa ispiratrice”, che lo ha sempre sostenuto e consigliato nella sua lunga carriera. Un uomo di mondo che però resta legato alle sue origini, lì in quella terra, tra Viareggio e Lucca, dove nacque e visse Puccini. Un genio un po’ dimenticato, a cui non è ancora stato dedicato un vero e proprio teatro d’Opera. Vederlo nascere è il sogno di Luisotti, che nel frattempo ha già individuato il posto adatto, l’ex manifattura di Lucca. Una realtà «che ha dato lavoro ai lucchesi – dice – tornerebbe così ad essere luogo d’economia».

Come si è avvicinato alla musica?

«Alla musica non ci si avvicina, perché è la musica ad avvicinarsi. Se hai un talento naturale, quando sei bambino non te ne accorgi, lei ti cerca e vuoi suonare uno strumento, non sai perché, ma lo vuoi fare. Io – ne parlavo l’altro giorno con mio padre – ho iniziato a 9 anni. Avevo compiuto gli anni il 26 novembre e lui a gennaio mi regalò un tastierino e lì cominciò la mia avventura da musicista. La musica ti cerca, sei come un prete che si sente chiamare. Mia madre era casalinga, mio padre falegname, il talento che avevo era inspiegabile, ho guardato altri suonare e ho suonato. Mio padre si chiese il perché e ricordo che al mio paese tutti pensarono: se lo fa lui, lo farà anche mio figlio. Io credo che ci si possa fare una cultura musicale, ma se non hai un talento non puoi fare il musicista. Io, come tanti altri miei colleghi, ho avuto fortuna e sono nato musicista. Ora lo devo sopportare però anche gli altri mi devono sopportare (ride ndr)».

L’ambiente in cui hai vissuto ha influito nella sua scelta?

«Credo proprio di sì. Quando avevo 12 anni per un breve periodo fui l’organista della chiesa di Torre del Lago e una domenica alla fine della messa suonai la Toccata e fuga in RE min di Bach – arrivavo a malapena con i piedi a toccare i pedali – e vennero delle persone a vedere chi suonava. Uno si presentò come il Direttore d’Orchestra Alberto Paoletti e mi disse: “Sto dirigendo la Butterfly qui a Torre del Lago e mi piacerebbe che venissi alla prima per sentire un’opera”. Andai con i miei genitori in prima fila, mi fecero conoscere i cantanti, l’orchestra, entrai nei camerini. Mi impressionò molto il clima, le trombe che suonavano forte, ero molto impressionato naturalmente perché nessuno mi aveva educato alla serata. Da lì è iniziato il mio rapporto con l’opera, anche se non l’amai da subito, ma cominciai a farlo dopo i vent’anni. Allora mi sembrava un po’ noiosa, mi sembrava che urlassero, non capivo le parole. Mano a mano che sono entrato dentro i testi, i libretti, le storie, mi sono appassionato e ho visto nell’opera un’espressione d’arte come la intendevano i greci».

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Quindi bisogna essere educati all’opera per poterla apprezzare?
«Bisogna andarci, perché purtroppo oggi abbiamo un mezzo, la tv, che distrugge qualunque cosa dal vivo in modo quasi irreparabile. Per quanto possa essere utile rappresentare in tv, è sbagliato. Quando lo vedi sullo schermo è distante, i suoni sono uguali, mentre dal vivo si sentono gli odori, il rumore dei passi, le voci che cantano davvero. La musica del vivo è una grande esperienza».

Il direttore è una figura solitaria rispetto al resto dell’orchestra. Che rapporto c’è con i musicisti?

«Mi pongo come un collega dei musicisti. Secondo me bisogna salire sul podio e poi scendere per poter comunicare. Ogni musicista si sente un grande artista, sente di aver rinunciato a qualcosa di se stesso per un ideale. Nel momento in cui qualcuno glielo fa dimenticare e lo fa diventare un operaio della musica, un tecnico, è finita. Il direttore con il suo carisma deve infondere agli altri il desiderio di suonare, di cantare, di far musica. Deve succedere qualcosa, non è quello che fa personalmente, ma quello che induce a fare. È un servitore. Se comanda è finita: ha tutto il potere, ma non lo deve usare. È il più piccolo di tutti».

C’è un teatro a cui è legato particolarmente?

«A volte noto che quando vado in un teatro – mi sposto tra New York, Tokyo, S. Francisco, Londra, Milano, Berlino, Pechino, Madrid, Roma, Parigi – mi sembra di aver viaggiato un sacco ma di essere sempre nello stesso posto. Alla fine il teatro è un’isola. Mi rendo conto che le reazioni del teatro sono molto simili. Il teatro con me reagisce in un modo, porto con me un mondo che ritrovo ogni volta che torno su un palcoscenico, che sia a Londra, S. Francisco o Napoli il mondo si ripete, pur cambiando le persone».

C’è una sostanziale differenza tra dirigere ed eseguire, o di fatto è la stessa cosa?
«Dirigere cosa significa? Mi sono posto tante volte questa domanda. C’è una differenza tra dirigere e insegnare: i direttori che credono di essere insegnanti, professione nobilissima, hanno infatti sbagliato mestiere. Sul podio si va a dirigere, cioè si ha di fronte un centinaio di persone di talento che hanno già superato delle prove importanti. Perciò non hanno bisogno di un altro insegnante, ma di una persona carismatica che tiri fuori il meglio da loro, magari un po’ annoiati, un po’ stanchi perché la stagione è stata lunga e suonano otto ore al giorno».

Ci vuole un po’ d’improvvisazione?

«Sì. Inoltre il direttore dirige in anticipo e ascolta in ritardo. È molto complicato, non so come si faccia a impararlo (qui non gli crediamo, ndr). Quando ero giovane pensavo fosse più facile, vedevo uno con la bacchetta…».

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Cosa ascolta nel tempo libero un direttore d’orchestra?
«A dir la verità nel tempo libero non ascolto musica, perché quando ho davvero del tempo libero mi piace suonare. Se ascolto, lo faccio perché devo, per capire come altri hanno pensato lo stesso brano. Solo quando sono in macchina a S. Francisco ho una stazione radio di musica classica che ascolto qualunque cosa passino. E ogni tanto ascolto del musical, anche se mi piace di più vederlo in teatro. Perché in macchina dopo un po’ che sento sbattere la batteria mi disturba, non sopporto il ritmo esatto. Il cuore non ha un ritmo esatto, mentre chissà perché la musica pop e rock tendono sempre a marcare un ritmo che non è proprio del nostro corpo. La musica classica ha il dono di riprenderli tutti questi ritmi».
Per tutta l’intervista, a fianco di Luisotti, silenziosa ma partecipe, è rimasta seduta Rita, la moglie. La chiacchierata ci ha portato a parlare anche di lei e del loro rapporto.

Lui ha abbandonato gli studi per un lungo periodo e poi, dopo averla incontrata ha ripreso a fare musica. Come ha contribuito alla sua crescita professionale?
«L’ho spinto moltissimo. A volte quando lui me lo ricorda non ci credo, ma mi dice: guarda che questo me lo hai consigliato tu… avevo 20 anni… L’ho anche sottovalutato questo ruolo, perché per me era naturale, ma lui me l’ha riconosciuto tantissimo. Forse c’è ancora qualcosa di scritto sugli spartiti che gli regalavo. Nicola mi chiedeva: “Ma ci credi che diventerò un direttore importante?” e io gli rispondevo di sì. E lui: “Ma tipo da dirigere la Tosca al Metropolitan?”. “Ma certo” gli rispondevo. Ero convinta che bisognasse puntare al massimo. E l’ha fatto. E una delle più grandi emozioni è stato vederlo a New York al Metropolitan alla prima della Tosca. Ho sentito un qualcosa di realizzato: il debutto di un’opera di Puccini, era un sogno. Ho rivisto tutta la nostra vita, da due ragazzetti di campagna, che non avevano niente, cresciuti insieme, arrivati lì da soli. Lui con il talento e io con la pazienza». Qui interviene Luisotti. «Quando iniziai a studiare, l’idea che avevo era di prendere il quinto anno di pianoforte e di andare a insegnare alle medie, lo scopo della mia vita era questo. Non avevo in mente che avrei fatto il direttore d’orchestra. Non aspiravo a farlo, anzi per un momento volevo fare il compositore. Ma al conservatorio mi chiedevano sempre di dirigere e mi riusciva facilmente».

La sua storia dimostra che solo con il talento e lo studio si può arrivare in alto.
«Di certo non devo ringraziare nessun politico. Devo però ringraziare musicisti, direttori artistici e sovrintendenti e amici che hanno avuto fiducia in me, come il pubblico che mi ha amato e permesso di fare questa carriera. Perché per fare questo tipo di carriera bisogna sacrificarsi tantissimo, c’è solo la musica e tutto il resto è un contorno. Se hai una donna speciale accanto lo puoi fare. Ci vuole qualcuno che condivida gli stessi valori. Da solo non potrei farlo».
Luisotti non nasconde un amore particolare per il Requiem di Verdi, un’opera che considera fondamentale e quasi necessaria.
«Porterei tutti i ragazzi delle scuole medie o delle superiori a sentire il Requiem di Verdi, è un’esperienza importante da fare. Come vedere un vulcano in eruzione, non vederlo da lontano, ma starci sopra. Nel 1874 venne suonato nella chiesa di S. Marco a Milano per commemorare la morte di Manzoni. Lo stesso anno debuttò alla Scala e ci furono delle scene di delirio tali che dovettero far arrivare le camicie di forza. Come con i Beatles, scene di isteria. Non c’erano cinema e tv, quella era l’unica occasione per sentire la musica».

Parliamo di Napoli. Dopo l’incendio alla Città della Scienza, i crolli di Pompei, come vede il futuro della cultura in questa città?
«Io spero che si possa dire che la cultura dovrà essere un grosso investimento e sarà un grosso investimento. La volontà da parte dell’amministrazione c’è. Luigi de Magistris e Rosanna Purchia sono convinti che il San Carlo, l’arte e la cultura possano salvare la gente. Tutto quello che è arte salverà la gente. Certo non la salveranno le riunioni private con le ragazzine, non la salveranno le speculazioni, questo non salverà nessuno, ma sarà stato soltanto qualcosa di comodo per pochi eletti. Ma la cultura e la musica sono per tutti, sono una cosa veramente democratica, non bisogna essere ricchi per amare la musica, bisogna essere vivi».

E per renderla più accessibile cosa occorre fare?
«Bisogna farla. Più si fa e più si diventa ricchi. Perché la gente acquista fiducia, esce, vuole vedere, è curiosa e anche il turismo aumenta».

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