di Igor Vazzaz
Si può dire che, circa vent’anni or sono con la dipartita di Giorgio Gaber seguìta a quella di Fabrizio De André, nell’immaginario relativo alla musica italiana si sia venuta a creare la categoria dei furono cantautori assurti a postumi fenomeni editoriali: sul Gaberscik e il genovese trapiantato in Sardegna vennero infatti imbastite successive operazioni tra il discutibile e l’inopportuno, dischi pubblicati a cadenza regolarissima specialmente sotto Natale, con festival e fondazioni a far girare il registratore di cassa, iniziative spesso in aperta controtendenza rispetto al pudore dei diretti interessati, uomini di spettacolo e quindi forniti d’un qualche grammo d’egotismo supplementare rispetto all’ordinario, ma pur sempre signori, nonché alieni da qualsiasi vocazione o fregola ultra-presenzialista.
Chissà che sorte spetterà a Francesco Battiato detto Franco, artista non meno elegante, sfuggente, quanto multiforme, camaleontico, nel bene e nel male, la cui carriera è caratterizzata da tratti spiroidali, in continuo equilibrio tra eso ed essoterismo, ricercatezza un filo snobistica e ostentatissimo afflato pop. Per questo è difficile, e forse pure inutile, tentar di darne consistenza in una manciata di parole, ché il profluvio di pubbliche manifestazioni di cordoglio, in un’epoca qual è l’attuale, rischia al contempo tanto l’effetto di sovradosaggio quanto quello d’anestesia.
Di certo, Battiato è stato, forse in questo compagno al solo Lucio Battisti, il più incompreso, equivocato, male interpretato, di quella schiatta che può fregiarsi del titolo di cantautore. Lemma vischioso, quest’ultimo: non basta né bastava scriversela e cantarsela per dirsi tale e, a ben vedere, nella peculiare storia culturale di quel peculiare paese che è l’Italia, sulla questione cantautorale sarebbe necessaria una riflessione meditata, a penetrare la fitta trama di rimandi e relazioni intessute tra società e musica di consumo nel secolo passato.
Semplificando: i cantautori, nell’ambito della canzone italiana, sono stati quei musicisti-cantanti che, in un arco di tempo compreso tra anni Sessanta e primi anni Novanta del Novecento, hanno proposto, quasi sempre firmandole, canzoni di osservazione e critica socio-politica, unendo a tale aspetto la capacità di incidere in modo evidente nella società e nel costume del nostro paese. Non stiamo certo sostenendo che a canzoni si fan rivoluzioni: è innegabile, però, come i principali successi dei vari Guccini, Vecchioni, Dalla, Bennato, Fossati, Branduardi, e l’elenco potrebbe farsi di almeno un centinaio di nomi, parlando della nostra società spesso in modo critico, riuscivano anche a iscriversi nell’immaginario collettivo, divenendone parte integrante.
Tale fenomeno, da metà anni Novanta in poi, si esaurisce: certo, la produzione dei suddetti ha spesso tracimato da quell’epoca giungendo sino a oggi, e varie schiere di “eredi” si sono affacciate sulla ribalta, ma la mutazione del contesto di produzione e ricezione è stata tale da autorizzare l’idea che il cantautorato storico abbia del tutto esaurito forze e spinta, di fatto estinguendosi.
Per paradosso, mai come adesso, in Italia, abbiamo cantautori, ma al gran numero di artisti che si inseriscono in tale filone corrisponde una capacità d’impatto culturale infinitesima rispetto ai predecessori e, tra i motivi di tale cambiamento, non si potrebbe certo inserire un ipotetico peggioramento qualitativo, di per sé indimostrabile, quanto, piuttosto, l’epocale cambiamento delle condizioni, tutt’altro che estraneo al crollo delle utopie socialiste e, nel caso italiano, allo scioglimento di quello che fu il più grande partito comunista occidentale, realtà irrinunciabile nell’orientamento e nel sostentamento di una parte significativa della nostra industria culturale.
Nessun cantautore, in questo momento storico, potrebbe mai riscuotere un successo popolare come accadde a Je so’ pazzo e ‘Na tazzuriella ‘e café, o Aida, e, ripetiamo, non si tratta certo della maggior bravura intrinseca degli artisti di un tempo rispetto a coloro che li hanno succeduti, bensì di Zeitgeist, di spirito del tempo. A meno che non si voglia considerare Occidentali’s Karma di Francesco Gabbani un esempio di canzone d’autore contemporanea, ipotesi tutta da valutare e, in quanto successo su larga scala, esempio comunque che potrebbe ricadere nella categoria dell’eccezione che conferma la regola.
Il tempo dei cantautori è coinciso con l’esistenza, per quanto utopistica, di un altro mondo (aggiungendo possibile sforeremmo erroneamente di un decennio), collegato però a una realtà politica e organizzativa che era in grado di supportare un intero comparto culturale.