(fotografia © Giorgio Fogliani)
Cirò si conferma una denominazione in cammino, da non perdere di vista. Anche se la strada è ancora lunga.
di Giorgio Fogliani
Cirò (KR), luglio 2018
Cirò e Cirò Marina sono uno dei luoghi del vino italiano che più si sono mossi negli ultimi dieci anni. Se appena due lustri fa, per rilanciare una denominazione storica ma sofferente, non si trovava di meglio che tagliare il gaglioppo col merlot, oggi il panorama e le parole d’ordine sono completamente cambiati, con un’attenzione maggiore al principale vitigno autoctono e all’unicità del territorio. Se n’è accorta la stampa di settore, se ne sono accorti i consumatori più appassionati, che sempre più guardano a questo lembo di Calabria ionica con curiosità e interesse.
Anche a livello di promozione si può registrare un certo fermento: ne è prova RossoCalabria, iniziativa a cura dell’Enoteca regionale e del Consorzio di Cirò e Melissa, che ha recentemente riunito a Cirò giornalisti ed enofili locali, dando loro l’opportunità di assaggiare, in un’unica occasione, vini di quasi tutte1 le aziende che insistono sul territorio di queste due Dop e degli immediati dintorni.
A un anno dalle degustazioni preliminari dedicare al mio ultimo libro Cirò: I luoghi del gaglioppo, e limitate a dodici aziende, quale miglior occasione per testare lo stato di forma della denominazione? Concentrandosi, per ora, sui cirò rossi, più importanti numericamente e nell’immaginario collettivo di rosati e bianchi, mi sembra si possano individuare, schematizzando un poco, tre macro-categorie di produttori e, di conseguenza, di vini.
1. Nel primo gruppo le aziende più dinamiche, che perseguono un’idea di cirò filologica e assieme (paradossalmente) avanguardista: nessun tentativo di arrotondare o addolcire forzatamente la personalità complessa e a volte irruenta del gaglioppo; nessun’ansia di coprirne il carattere filo-ossidativo; la decisione a farne vini un po’ più ambiziosi in termini di collocazione sul mercato. Tutto passa attraverso una viticoltura curatissima e biologica, una vinificazione con meno additivi possibile ma mai approssimativa, affinamenti spesso di più d’un anno. Si tratta delle poche ma “rumorose” aziende di quella che si autodefinisce sempre più convintamente #CiròRevolution, e sono caratterizzate da un’ammirevole unità d’intenti, sebbene diano luogo a vini tutt’altro che simili gli uni dagli altri, lontani da un copia-incolla protocollare.
2. Nel secondo gruppo alcune (anch’esse poche) aziende storiche, attive da più tempo sul territorio e sul mercato: la loro impostazione è più moderna che contemporanea; i loro cirò rossi sono senz’altro più levigati dei precedenti, il frutto è più preservato, i tannini in alcuni casi ammorbiditi; con l’eccezione di alcune riserve, queste bottiglie strappano prezzi generalmente più bassi della categoria precedente, e sono prodotte in quantità maggiore. Ciò nonostante, mantengono di solito apprezzabile una coerenza territoriale – sono cioè leggibili come cirò, al netto dello stile – puntando su una bevibilità più immediata e su un pubblico più eterogeneo. Appartengono a questo novero Librandi, Ippolito1845, Fattoria San Francesco, e alcune altre.
3. Il terzo gruppo è più ampio ed eterogeneo. Vi afferiscono aziende di dimensioni anche molto varie, che inseguono in genere un’idea di cirò modernista, ma senza centrare i risultati del gruppo precedente. I loro vini sono quindi a volte caricaturali, sfoggiano morbidezze poco credibili o svolazzi olfattivi esagerati, come ossessionati da un’idea ipertecnica di “pulizia” che li fa identici ad altri vini prodotti altrove con la stessa ideologia. Altre volte sono semplicemente sfuocati in termini di definizione aromatica e tattile. Il loro contributo dà il senso di qualche ombra su un panorama forse più eterogeneo ed esitante di quanto non si possa scoprire se ci si tiene stretti ai soli vini migliori del comprensorio.
Al dinamismo cirotano fa quindi da contraltare l’immobilismo di una parte dei produttori dalla visione apparentemente meno chiara. Tuttavia, il cammino, a volerlo seguire, è tracciato, la vocazione e il potenziale del territorio sono indiscutibili, gli esempi non mancano. L’ottimismo per questa denominazione è dunque più che mai giustificato.
Post Scriptum
La temperatura ideale per approcciare un cirò rosso è (a maggior ragione in estate, ma non solo), di 13-14° C. Per controintuitivo che appaia, la presenza tannica non ne soffre: al contrario, serviteli a “temperatura ambiente” e il tannino avrà ragione di voi!
Post Post Scriptum
Da queste parti si continua a mangiare molto bene. All’Aquila d’oro di Cirò, già consigliata nel libro, aggiungo volentieri due indirizzi:
‘A Casalura è una “semplice” gastronomia, con alcuni tavoli in un ambiente grazioso; si assaggiano o si portano via piatti semplici: polpette di melanzane, peperoni e patate, insalata di portulaca, sarde salate, e molto altro. Curata la scelta di vini locali. La anima Giuseppe Pucci che come alcuni dei migliori vignaioli di Cirò ha dovuto girare l’Italia e l’Europa (il luogo più noto ed evocativo è il Noma di Copenaghen) per capire e interpretare meglio casa propria. Chapeau.
Via Roma 186, 88811 Cirò Marina (KR), tel. 340.86.17.774
Trattoria Enoteca Max, di cui ho assaggiato la cucina “in trasferta” sul Bastione Cannone di Cirò Superiore, senza quindi, purtroppo, visitare direttamente il locale. Pietanze peraltro deliziose, come un crostino di pane con peperoni piccanti e un’alice marinata al bergamotto.
Via Togliatti 75/81, 88811 Cirò Marina (KR), tel. 0962.373.009
1 Nel 2017 hanno imbottigliato cirò Doc 45 operatori; 32 hanno partecipato a RossoCalabria.