Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto di Samuel Cogliati |
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Viaggiare in
un Paese del G8 Black out
in the city Quando il tempo
è monocronico, anche il metrò può diventare un grave problema.
di Francesca Capozzo |
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L'antropologo Edward T. Hall ha postulato l'esistenza di società immerse
in un tempo “monocronico”, nelle quali lo sfruttamento del tempo è
essenziale. Questa concezione si traduce in una pianificazione orientata
al risultato: solo ciò che è funzionale all'obiettivo è rilevante,
il resto passa in secondo piano. Puntualità e intolleranza verso gli
impedimenti e gli intoppi sono dirette conseguenze.
La società occidentale è il paradigma della concezione “monocronica”,
la quale ha favorito la creazione di reti di trasporto utili a sfruttare
al meglio le ore della giornata. Il treno o la metropolitana, ad esempio,
diventano parte integrante della vita dell'individuo occidentale,
e instaurano una forma di dipendenza.
L'invenzione della metropolitana risale alla seconda metà dell'Ottocento.
Da allora, questo mezzo di trasporto scandisce la quotidianità di
lavoratori, studenti e turisti che lo scelgono per spostarsi nelle
affollate città sature di traffico.
E in caso di blackout? Come reagiscono le nostre metropoli? Non si
tratta certo di una catastrofe, tuttavia il valore della puntualità
lo rende un evento tragico per chi lo vive, a volte curioso per coloro
che osservano.
Chi rimane intrappolato nei vagoni della metropolitana non può far
altro che attendere. E l'attesa è, “monocronicamente parlando”, sinonimo
di dispersione di una risorsa. In Francia, ad esempio, la sala d'attesa
si chiama anche salle des pas perdus, “sala dei passi persi”.
Non è raro che i passeggeri imprigionati impieghino il loro tempo
telefonando, inviando messaggi sms o continuando a leggere documenti
al chiarore delle luci di emergenza. Tentando cioè di far fruttare
in qualche modo quel trascorrere dei minuti. Ancora una volta, la
nostra percezione del tempo disciplina il nostro comportamento: difficile
accettare l'idea che un blackout ci impedisca di fare ciò che ci eravamo
preposti. Ed è lo stesso impulso di fare, di agire, di muoversi, insomma
di non oziare che guida tutti coloro che restano in libertà.
Per loro scatta una corsa al primo taxi disponibile. Se il centro
delle città è invaso dai tassisti, questi scarseggiano proprio nelle
zone periferiche dove i viaggiatori cittadini hanno poche soluzioni
per muoversi. Le metropoli diventano irriconoscibili: autobus gremiti
di persone che optano coscientemente per un viaggio disagevole pur
sapendo che, dato il traffico, il mezzo potrebbe percorre pochi chilometri
in mezz'ora. Ma il fatto di trovarsi su un mezzo di locomozione fa
sentire meno inermi, riaccende la speranza ed è anche motivo di orgoglio
perché illude di essere più abili di tutti quelli rimasti a terra.
Ben presto, l'appagamento lascia spazio alla trepidazione: l'autobus
va a rilento e se l'autista non accelera per occupare quel varco che
si è aperto nel traffico, avanzando così di un metro abbondante, torna
il nervosismo. L'agitazione sale quando l'autista rallenta alla vista
del semaforo giallo o quando uno dei tanti passeggeri ammucchiati
intende legittimamente disporre della propria facoltà di scendere.
I più atletici optano per la bicicletta. A dir la verità, anche i
meno aitanti, in mancanza di valide alternative, decidono di noleggiare
una bici. Un gesto abbastanza azzardato in alcune grandi città, soprattutto
se si considera la collera e l'imprudenza di un automobilista immerso
nel traffico da blackout.
Un'altra opzione è raggiungere la nostra meta a piedi. Ma l'importanza
che riveste la puntualità trasformerebbe la passeggiata in una camminata
spedita intervallata da fasi di corsa.
Ma ecco che mentre i viaggiatori cittadini corrono e pedalano, la
corrente elettrica ritorna a beneficio di quei pochi che con tranquillità
si sono seduti nelle stazioni, abbandonandosi alla sensazione di essere
liberi, come se il senso di controllo sul tempo che tormenta tutti
li avesse risparmiati. È proprio la concezione temporale che caratterizza
la nostra civiltà che ci ha permesso di progredire e svilupparci.
Dunque poche persone sacrificano la puntualità per godersi l'imprevedibilità
della vita.
Ma quel tempo usato a correre, a spostarsi in mezzo a una folla sconosciuta
che sconosciuta rimane, a innervosirsi al buio, a ignorare lo spettacolo
di una città che si muove, non sono altrettante occasioni perdute?
Verso quale obiettivo ci spinge quel tempo “monocronico” che detta
legge? Qual è quel traguardo? Quale scopo? Che cosa stiamo cercando,
attraverso lo spazio, senza perdere tempo? Il nostro punto d'arrivo
è così nobile da ripagarci del tempo perduto per sempre?
In una bella canzone, La quête du pays, il cantautore canadese
Gilles Vigneault raccontava di un colono bianco affannato nella ricerca
del suo paese perduto. Forse una metafora di quel tempo e di quel
luogo che attraversiamo senza afferrarli. Dopo essersi rivolto al
vicino di casa, al sindaco, al parroco, al ministro ed aver coinvolto
tutta la comunità nella sua vana ricerca, il colono chiede consiglio
a un nativo americano: «Peux-tu me dire comment je dois faire pour
retrouver mon pays ?» [«Puoi dirmi come devo fare per ritrovare il
mio paese?»] L’indiano ride, ci pensa, si siede e gli risponde con
un breve discorso: «Depuis ton arrivée, j’ai eu beau t’observer, je
ne comprends pas ce que tu cherches. Si c’est le pays, tu devrais
l’avoir : tu me l’as volé. Je me demande ce que tu as fait avec!».
[«Fin dal tuo arrivo, ti ho osservato invano, non capisco che cosa
cerchi. Se è il paese, dovresti già averlo: me l’hai rubato. Mi domando
che cosa ne hai fatto!». (la traduzione è nostra)] Sa.Co.
Francesca Capozzo studia Lingue e Relazioni
internazionali all’Università Cattolica di Milano. Si interessa
di cultura e lingua cinese e delle dinamiche politiche e economiche
internazionali |
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