di Samuel Cogliati
24 maggio 2020
I timori di qualche settimana fa si stanno concretizzando. Nei giorni scorsi abbiamo visto appassionanti servizi giornalistici su persone che prendevano il caffè al bar, su negozianti che esprimevano la loro fiducia “perché c’è tanta voglia di normalità”, e città gradualmente tornare a riempirsi in ogni ordine di luoghi e di orari. I parchi, le strade, le piazze, gli spazi prospicienti i bar. E poi i ristoranti prepararsi a riaprire con timidezza e cautela, ma anche cercando la massima visibilità possibile, com’è comprensibile dopo mesi di difficile chiusura.
In pochi giorni si è passati da un ordinato dispiegarsi di cittadine e cittadini che tornavano a guadagnarsi abitudini perdute a una sorta di “rompete le righe” quasi generalizzato, con le autorità locali strette tra frustrazione, senso di impotenza e disorientamento. Via le mascherine, bentornati abbracci e brindisi, distanze di sicurezza sempre più trascurate. È normale: è quasi estate e abbiamo sacrificato la primavera.
Allora abbiamo iniziato ad assistere a riunioni di famiglia sempre più allargate, e di “congiunti” sempre più improbabili. Pacche sulle spalle, “ripartiamo” e “viva la libertà”. Ecco: c’è un fraintendimento, per così dire, enorme in questa cosa. Da molte settimane si sente parlare di complotto, di negazionismo, di esagerazione, di incompetenza delle istituzioni e persino della scienza (dimenticando che la scienza fa quasi sempre i conti con un margine di approssimazione); ma in questi giorni ho anche sentito persone dichiarare che “il virus sta scomparendo, e nei prossimi mesi saremo più preparati per liberarci finalmente da questa pratica barbara e medievale che è il confinamento”.
Forse dovremmo accorgerci che barbara e medievale è semmai la scelta di governi che hanno ampiamente sottovalutato, quando non negato, la pandemia, ed esitato o minimizzato la necessità di prendere provvedimenti, a cominciare proprio dal distanziamento sociale. Paesi che oggi si ritrovano con tassi di mortalità elevatissimi. E dovremmo ricordare che se in questi mesi abbiamo dovuto fare sacrifici (sopportabilissimi, quando non comportavano pesanti ricadute economiche personali), non l’abbiamo fatto perché un governante folle, tiranno o incompetente ce lo imponeva, ma per salvaguardare noi stessi e la società cui apparteniamo.
Dovremmo anche ricordare che la pandemia non è affatto terminata, che condizionerà ancora le nostre vite e che ripartire, se questo corrisponde a un ritorno immutato alle vecchie abitudini e una priorità a fare ciò che ci pare, è un verbo senza significato. Anzi, un verbo nefasto. Non si tratta di ripartire, ma di cogliere l’occasione per imprimere un cambiamento necessario e non più differibile.
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