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Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati. Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata - e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il vino, il rugby e il viaggio.

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I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto di Ferdinando Baron
Senegal 2: a lezione di civilità

Tutto bene, toubab?
Quella solida, pacifica identità a forma di baobab.

di Alicia Miramundos

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Il livello di sviluppo di una società dovrebbe essere proporzionale al suo grado di rispetto per l’altro e alla sua capacità di convivenza pacifica. Dovrebbe. A maggior ragione in un mondo sempre più globalizzato, dove la modernità si misura in capacità di integrazione e pluriculturalismo. Paradossalmente, in molti Paesi occidentali, civilizzati, moderni e ricchi il parametro si inverte e si è sempre meno capaci di accettare chi è diverso, nella presunta difesa del diritto di vivere in una società civile. Evidentemente, in queste società civiltà non è sinonimo di cultura, intesa come «patrimonio collettivo di norme sociali proprie di un popolo, radicamento storicosociale di un individuo in un determinato contesto e consapevolezza dell’identità così acquisita» (Fonte: DISC - Dizionario Italiano Sabatini Coletti, Giunti, Firenze, 1997). Identità come senso di appartenenza a un gruppo, a una comunità, a un modo di essere, ma anche consapevolezza della propria unicità all’interno di quel gruppo. La ricchezza vera, dunque, non è quella delle società ricche, ma quella delle società con identità ben consolidate.

Il Senegal è uno dei Paesi economicamente “poveri” da cui partono molti giovani uomini per cercare condizioni di vita migliori, mentre l’Italia, da Paese di emigranti, si è trasformata, nel giro di pochi anni, in Paese di immigrati. L’unico bagaglio corposo con cui un senegalese arriva in Italia è la sua identità e l’unico terreno comune su cui confrontarsi, al di là dell’ovvio io-nero/tu-bianco, sembra essere il calcio. A volte, poi, pare che l’italianità emerga solo quando l’italiano è all’estero e sogna un piatto di pasta. È chiaro che calcio e cibo non sono elementi sufficienti a forgiare un’identità solida. Per questo, quando l’italiano si trova davanti a portatori di identità forti diventa arrogante e violento, come un lupo che, ferito nella propria tana, insiste a difendere il proprio territorio e att acca per paura.
Per un senegalese, invece, l’espressione della propria identità e la manifestazione di interesse verso il proprio interlocutore sono le regole di base della convivenza civile. In Senegal le prime domande che si fanno a uno sconosciuto sono sempre «come ti chiami?», «da dove vieni?», «perché sei qui?», «dove vai?», perché nel nome è racchiusa l’etnia di origine e le coordinate spaziali fanno il resto. E poi c’è un saluto di almeno tre minuti, con stretta di mano e contatto fisico prolungato: «hai dormito bene?», «hai mangiato a sufficienza?», «la tua famiglia come sta?» e un fitto scambio di sorrisi e informazioni. «C’est la teranga», dicono i senegalesi, il proverbiale senso di ospitalità e accoglienza, di cui vanno fieri e che è un tratto saliente della loro identità. È cultura della socialità, dell’attenzione e del rispetto verso l’altro e talmente tanto bisogno di contatto che in ogni villaggio c’è “l’albero delle parole”, di solito un grosso baobab dove ci si ritrova per discutere del più e del meno o per prendere decisioni importanti.

foto di Ferdinando Baron

Da dove viene questa cultura della convivenza civile in un Paese apparentemente “sottosviluppato”? In Senegal vivono circa una ventina di etnie diverse, che parlano lingue diverse e che spesso hanno religione, usi e costumi diversi, ma sembra che l’elemento unificante, dopo la decolonizzazione pacifica dalla Francia e la conquista dell’indipendenza nel 1960, sia la coscienza di un’identità comune. Un’identità ri-costruita grazie al lavoro del primo presidente del Senegal indipendente, Léopold Sédar Senghor, che ha promosso una negritudine moderata, più incentrata sulla rivalutazione positiva dell’uomo nero che sulla demonizzazione dell’uomo bianco. Il superamento del complesso di inferiorità degli africani occidentali, maturato in anni di colonizzazione francese, è stato avviato grazie a una profonda azione sociale di presa di coscienza e valorizzazione delle proprie radici e del proprio modo di essere. Senza però - a differenza di quanto accaduto in altri Paesi della stessa area - disprezzare la cultura europea, perché, per dirla con parole di Sédar Senghor, «l’emozione è nera, la ragione è ellena». Due modi di essere e di affrontare la vita che non sono incompatibili, ma che per poter convivere devono imparare a conoscersi e a capirsi. Venti anni di politica (1960-1980), quella di Sédar Senghor, orientata a costruire un Paese più ricco di valori culturali che economici: quella era la priorità per porre le fondamenta di una società che, prima di svilupparsi economicamente, doveva ritrovare se stessa e riconoscersi a partire da una base comune. In Senegal l’ordine dei componenti che configurano l’identità ricorda l’immagine di un baobab: il tronco, grande e solido, rappresenta l’elemento più evidente e unificante, l’essere neri; poi, le scanalature più grosse, l’essere senegalesi rispetto ad altri africani; poi i rami più bassi che partono dal tronco rappresentano la religione: musulmani, cattolici, animisti, religioni tradizionali; poi i rami che si fanno via via più piccoli sono le varie etnie e lingue e infine le tribù, intese come famiglie allargate. Tutti uniti nella diversità, con il francese, la lingua dei toubab, a favorire la comunicazione interetnica.
Ecco gli elementi che definiscono un’identità nazionale così solida, civile e pacifica: la teranga, un’orgogliosa negritudine, l’inclinazione per le emozioni della vita, la prevalenza della ricchezza culturale sull’economia e forse un’eredità linguistica francofona unificante.

foto di Ferdinando Baron

E così può capitare che, in un villaggio a maggioranza musulmana, accanto alla moschea ci sia una chiesa cattolica, dove un prete africano, nero, senegalese, wolof faccia catechismo a bambini serer che hanno zii e parenti musulmani; e può capitare che questi parenti partecipino silenziosi e compìti alla cerimonia della Prima Comunione; e può succedere che i ragazzini musulmani vadano al centro di formazione professionale a imparare ad usare i computer che Père Moïse ha rilevato di seconda mano da una Ong cattolica; e che Père Moïse e l’imam organizzino insieme cicli di incontri sul tema della convivenza religiosa e che si ritrovino a discutere sotto l’albero delle parole insieme agli anziani del villaggio su questioni che riguardano l’intera comunità. E se arrivano due toubab, due stranieri e pure bianchi, può accadere che il prete li accompagni dall’imam in persona e che questi li accolga in casa sua e gli faccia servire il tè da qualcuna delle sue mogli; e infine può accadere che entrambi, l’imam e il prete, si incarichino di accoglierli e trovare loro vitto e alloggio, e può anche darsi che i bambini li vogliano accompagnare ovunque e che il “guardiano notturno del villaggio” li segua a vista, armato di torcia e bicicletta, quando sono in giro di sera da soli, sotto un cielo stellato che illumina una notte nera che più nera non si può, e non per minacciarli, ma per proteggerli, per sapere se «tout va bien», se va tutto bene. La ricchezza del Senegal è questa, ed è inversamente proporzionale al suo grado di sviluppo economico. Ma forse è meglio così.

Alicia Miramundos, viaggiatrice instancabile e curiosa, ispanista per passione e per professione, vive e lavora a Milano. Racconta i luoghi che ha visto nell’intento di trasmetterne l’essenza e lo spirito

     
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