Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
Vai a www.possibiliaeditore.eu
Il “Ponte Per”
che resiste alle piene Intervista
a Domenico Chirico, direttore di un’associazione umanitaria
sopravvissuta a due guerre del Golfo. E non solo.
Le “deflagrazioni” della Storia, oltre ad essere momenti tragici
che rimescolano traumaticamente popoli, luoghi e culture, sono anche
brevi periodi di elevata attenzione. Il coinvolgimento emotivo - specialmente
nell’èra telematica - innesca moti di partecipazione e solidarietà
anche a distanza. Non sempre, però, queste reazioni di umanità sopravvivono
allo spegnersi dei riflettori.
Non è questo il caso di “Un Ponte Per”, associazione nata come risposta
e repulsione verso la prima guerra del Golfo persico, con il nome
di “Un Ponte Per Baghdad”. Tra i suoi intenti originari, pacifismo
e sostegno della popolazione civile. Ma lo slancio umanitario - in
un certo senso umanistico - del sodalizio si è radicato al punto da
trasformare ed estendere il disegno iniziale. “Un Ponte Per Baghdad”
ha perso il suo riferimento alla capitale irakena non per stanchezza,
ma perché si stava rafforzando al punto da diventare in un certo senso
ecumenica. Verso una prospettiva più ampia. Oggi “Un Ponte Per” conta
350 soci, 3.000 sostenitori e 9 comitati locali. Tenere unite le risposte
umanitarie e la trasmissione culturale tra popoli resta una sua priorità.
«Un Ponte per... considera indivisibili gli interventi di solidarietà
concreta verso le popolazioni colpite, l’impegno “politico”
per incidere sulle cause delle guerre e la costruzione di legami tra
la società italiana e le società dei paesi in cui opera»,
scrive nella sua Dichiarazione d’intenti.
Questa capacità di durare e perdurare, di sfidare e vincere
la naturale caducità delle cose, è una qualità
che manca sempre di più alla nostra civiltà.
Per questi motivi, nel “dossier ponti” di questo numero,
abbiamo voluto interessarci, seppur concisamente, di quest’associazione,
intervistando il suo direttore, Domenico Chirico.
Ludovica
Scaletti:
Quando e perché nasce “Un ponte per”? Qual è
la sua peculiarità rispetto alle altre associazioni che operano
nel sociale?
Domenico Chirico: «Un Ponte
per nasce nel 1991 come comitato di pacifisti che si opponevano alla
prima guerra del Golfo e per assistere la popolazione irachena durante
i 12 anni di embargo seguiti alla guerra. Rispetto ad altre associazioni
che si occupano di cooperazione internazionale, Un Ponte Per ha sempre
mantenuto il suo impegno pacifista accanto all’attività
più strettamente di cooperazione internazionale. Al lavoro
di informazione in Italia si sono sempre accompagnati progetti di
assistenza sanitaria, sui diritti umani, di educazione che l’associazione
svolge ormai da vent’anni in Iraq, Libano, Giordania, Turchia
e Serbia».
Che cosa significa per voi “creare
ponti” e quali sono i ponti che bisognerebbe costruire, in senso
metaforico, oggi nel mondo?
«È necessario,
considerando le aree dove noi lavoriamo, costruire dei ponti tra organizzazioni
della società civile per favorire dialogo e conoscenza reciproca.
Conoscere meglio il mondo arabo significa per noi anche lavorare contro
il crescente clima di intolleranza che si respira in Italia. Lavorare
poi con organizzazioni della società civile nel resto del mondo
vuol dire costruire alleanze su tematiche importanti che riguardano
ormai un po’ tutti. Molte scelte politiche importanti vengono
infatti operate a livello internazionale, come ad esempio la questione
della gestione dell’acqua e della sua privatizzazione, che è
trasversale».
Quali sono i progetti attuali?
«Al momento lavoriamo nell’assistenza socio sanitaria
ai profughi iracheni in Giordania e a i profughi palestinesi in Libano.
Con Unicef lavoriamo in campo educativo sempre nel Libano. In Iraq
ci occupiamo anche di diritti umani, con particolare attenzione all’assistenza
legale ai detenuti, alle loro famiglie e alla protezione delle vittime
di tortura. Accanto a questi percorsi che hanno un valore umanitario
e politico abbiamo anche sviluppato alcuni filoni di lavoro in campo
culturale. Tra questi è sicuramente importante il lavoro che
stiamo svolgendo a sostengo del patrimonio della Biblioteca Nazionale
di Baghdad, che abbiamo messo in contatto con la Biblioteca Nazionale
centrale di Firenze per svolgere corsi di aggiornamento ai bibliotecari
iracheni e scambiarsi buone pratiche. È un modo per difendere
la dignità culturale dell’Iraq e provare a parlare di
questo martoriato Paese non solo in termini di violenza ma anche tenendo
conto della sua millenaria storia. Il lavoro in campo culturale si
svolge anche in Italia attraverso l’organizzazione di mostre,
spettacoli e recentemente di un festival di cinema libanese e palestinese
a Roma. In Italia lavoriamo anche con le scuole in varie regioni e
in varie campagne di informazioni e sensibilizzazione sui Paesi dove
operiamo.
In Iraq, Libano e Serbia portiamo avanti dei progetti di sostegno
a distanza di bambini con patologie croniche o per favorirne la frequenza
scolastica».
Che difficoltà avete incontrato
nel vostro lavoro?
«Credo che la maggiore difficoltà
sia interessare le persone al nostro lavoro non solo da un punto di
vista umanitario ma anche nel suo valore politico e di solidarietà
tra popoli e comunità. Poi è naturalmente complesso
trovare fondi per rispondere ai molti bisogni che riscontriamo in
posti come i campi profughi palestinesi o in Iraq».
Sara Minelli è fotografa. Laureata in Antropologia
e diplomata di un Master di Cooperazione internazionale e Diritti
umani, lavora con enti e ong in vari Paesi. http://www.saraminelli.com