Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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Intervista: a
colloquio con Max Gazzè La
Fortezza del Basso Quelle
linee melodiche nate dagli anni Settanta, dal Belgio e dalla
Gran Bretagna.
Con un messaggio: resistere e insistere. di
Igor Vazzaz |
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Incontriamo Max Gazzè al secondo tentativo. Non che manchi
di disponibilità - anzi! e questa è l’occasione per ringraziare lui
e il suo management - ma il 29 luglio Firenze era stata sciacquata
da un interminabile temporale che aveva annullato anche il suo concerto.
La data è stata recuperata il 7 agosto, costringendo gli organizzatori
di InFortezza Estate - Avanti Popolo, bella rassegna
di musica di qualità nello spazio della Fortezza da Basso, a inserire
l’esibizione di Max assieme a Angela Kinczly e The Waiting Room prima
di Bella Livorno, concerto dedicato alla città toscana e ai
suoi artisti: i Virginiana Miller, Nada e, soprattutto, Bobo Rondelli.
Qui, però, Max Gazzè non presenta il proprio repertorio originale
di suggestioni melodiche, testi mai banali e freschezza d’ascolto,
ma un progetto centrato sulla riproposizione integrale di The Lamb
Lies Down On Broadway, celebre e discusso concept album
dei Genesis, datato 1974, ultimo capitolo della proficua collaborazione
tra la storica band e il suo primo leader Peter Gabriel.
Oltre all’esecuzione musicale lo spettacolo presenta un apparato di
videoproiezioni appositamente realizzato riscuotendo un sonoro e meritato
successo: certo, è abbastanza inconsueto vedere Max cantare seduto,
in posizione composta, senza il basso a tracolla e senza cercare una
dire a interazione col pubblico. Ma la scelta è legittima: se si vuole
riproporre una storia, un concept, la forma deve prevedere una sorta
di “chiusura” rispetto all’esterno; del resto, al netto degli applausi,
i cantanti delle opere liriche non interrompono gli spettacoli per
ringraziare il pubblico.
Appena sceso dal palco, Max è avvicinato dai fans: foto di rito, pacche
sulla spalla, commenti, battute, il classico corredo dei concerti.
C’è anche il tempo per uno scambio di battute con Nada (storica signora
della canzone italiana). Privilegiati osservatori, assistiamo al dialogo:
Nada - Bravo Max, bell’idea davvero, complimenti.
Max Gazzè - Grazie, in realtà una cosa simile l’avevamo fatta
lo scorso anno, sempre qui a Firenze, con un altro capolavoro, Atom
Earth Mother dei Pink Floyd. Si tratta di operazioni particolari,
coraggiose, in un certo senso: non basta la musica, si prova a raccontare
qualcosa, a catturare l’attenzione del pubblico verso una storia,
cosa che ormai non fa nessuno e che, invece, sarebbe necessario.
N - Hai ragione. Il bello è che la gente apprezza queste cose,
ma raramente vengono proposte. Si preferisce fare cose semplici, quasi
nella convinzione che il pubblico sia limitato. Lo vedo anch’io con
le serate teatrali che faccio: la gente ha fame anche di questo. E
poi, la narrazione, la fantasia, il sogno, sono elementi importanti,
irrinunciabili. MG - Il concept, l’idea di un concetto
forte che stia dietro un’opera è stato abbandonato negli ultimi anni,
ed è un vero peccato. Questione di marketing, forse, di tendenze.
Però è necessario cercare di proporre sempre cose in cui crediamo,
cose belle. Bisogna avere il coraggio di riproporre le cose, magari
non facendole alla stessa maniera in cui venivano fa e negli anni
Settanta, rendendole vive, presenti, in qualche modo. N
- Reinventandole, certamente. Guardando sempre avanti. Di cose belle
da fare, poi, ce ne sarebbero sempre tante... MG - Per
me, ristudiare The Lamb è stata un esperienza pazzesca, perché
sia musicalmente sia dal punto di vista della scrittura è un’opera
interessantissima, da cui si può solo imparare. Come del resto è accaduto
l’anno scorso con i Pink Floyd.
Nel frattempo i Virginiana Miller hanno iniziato a suonare e il volume
non consente più di dar vita a conversazioni elaborate... Con Max
al fianco, raggiungiamo i camerini: ci accoglie in modo naturale,
così come, nei minuti precedenti, si era rivolto ai fans che lo avevano
circondato affettuosamente. Ci sediamo, in sottofondo il concerto
prosegue. Possibilia - Complimenti per il concerto,
un’iniziativa originale Max Gazzè - «Grazie, come dicevo a
Nada, i concept non si fanno più, prevalgono altre forme si spettacolo,
assai più d’intrattenimento, in cui la narrazione è rarefatta o diluita.
The Lamb invece era, a quei tempi, e continua a esserlo ora,
una sfida, un tentativo di spettacolo “totale”». - In
effetti, l’impressione era più quella di un concerto lirico, “chiuso”
in qualche modo. L’interpretazione sta nell’esecuzione, non nell’interazione
diretta col pubblico... - «Esatto. Qui si tratta di suonare nel
miglior modo possibile questo disco, pietra miliare del rock, che
ha una propria unicità, essendo, appunto un concept. Non facevamo
uno spettacolo per far ballare la gente, proprio un’altra cosa».
- In questo ci siete perfettamente riusciti. Siamo qui, però,
non per raccontare il concerto appena concluso, ma te, la tua vita
d’artista, i tuoi progetti. Sei un cantautore, in un certo qual modo,
ma ti distingui dagli altri, anche della tua generazione, per il fatto
che sei uno strumentista, un bassista peraltro molto bravo.
- «Ti ringrazio... In effetti, l’essere bassista comporta l’avere
un approccio melodico completamente diverso rispetto a chi suona altri
strumenti, come il pianoforte o anche la stessa chitarra. Devo dire
che questo l’ho notato anche nel lavoro di altri bassisti compositori,
che spesso non scrivono sviluppando sequenze di accordi, ma creando
intrecci melodici non scontati. Se pensi a Cara Valentina,
l’andamento melodico è strettamente legato alla sequenza dei bassi.
Allo stesso modo, Il solito sesso è una canzone scritta su
sei tonalità diverse... un sacco di accordi!» - In questo
senso, il tuo lavoro sembra, se ci passi il termine, beatlesiano,
in senso profondo. Dei Fab Four non prendi la scorza esteriore, come
molto pop britannico, ma evidenzi un analogo interesse per brani di
grande raffinatezza compositiva e, al contempo, facili da ascoltare,
sempre “freschi”...
- «Cerco sempre di seguire un flusso, che nasce quasi sempre sulla
scorta di sperimentazioni. Mi metto a lavorare su ipotesi e poi, da
lì, avviene qualcosa: non è che il momento creativo sia premeditato,
le cose escono da sole. Si arriva a un punto in cui la composizione
è lì, esiste, e io non posso fare altro che contemplarla, cercare
di interpretarla al meglio». - Arrivi al punto in cui
sei tu ad andar dietro alle idee...
- «Esatto. Cerco in qualche modo di portarle giù da un mondo intraducibile,
o forse l’esperienza, il talento musicale che si possiede sta proprio
nel riuscire a tradurre in note musicali e timbri sonori quel qualcosa
che nasce altrove e che è difficile da traslare».
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- Ti ritieni un compositore “d’ispirazione”
o “muscolare”? Ti metti a scrivere oppure ti lasci cogliere di sorpresa
dall’idea?
- «Non c’è mai un modo per prevedere, premeditare un momento creativo.
L’invenzione dura pochi secondi, la si deve cogliere, afferrare. Solo
in seguito subentra il lavoro di traduzione, di levigazione, cercando
di ritornare a quel linguaggio che ti ha folgorato nel momento dell’ideazione».
- De André paragonava la scrittura alla pesca con le reti.
Una volta rimesse in barca col pescato, è necessario scegliere ciò
che va bene e rigettare in acqua tutto ciò che è inutile o ancora
immaturo.
- «Certamente. Si deve scartare oppure avere la capacità di sintetizzare
in linguaggio comprensibile un qualcosa che può essere passibile di
moltissime interpretazioni. In fondo, non c’è una ragione prima per
cui nascono queste cose, c’è un bellissimo detto giapponese che recita:
“Se vuoi sapere dove nascono i fiori, neanche il dio della primavera
lo sa”. Tu puoi osservare le cose mentre nascono e veicolarne, almeno
provarci, determinati significati emotivi. La musica è un’arte particolare,
evocativa, l’armonia tocca certi stati d’animo in modo profondo».
- La musica è un’arte subdola, in un certo senso: si appiccica
alle esperienze ed è emotivamente formativa. Per questo hanno ancora
successo la canzoni dei cartoni animati, perché ci mettono in contatto
con determinati periodi.
- «La musica prescinde dall’analisi. Essendo in prima istanza suono,
supera qualsiasi controllo razionale ed entra in contatto immediatamente
con le parti più interne di chi vi è sottoposto. La musica tocca e
va a generare emozioni, un processo molto difficile da comprendere
a fondo». - È proprio per questo motivo che la musica,
specie quando parla di sentimenti, dovrebbe essere molto attenta,
non banalizzare... Lo diceva Frank Zappa, del resto: brutte canzoni
d’amore insegnano ad amare male.
- «Anche questo è vero, indubbiamente. E, infatti, scrivere è un’enorme
responsabilità. Per quanto mi riguarda, cerco sempre di stare molto
attento: non voglio “parlare d’amore”, ma mi limito a descrivere degli
stati emotivi incondizionati, è un lavoro spesso molto sottile».
- C’è da dire che le tue canzoni d’amore sono sempre molto
delicate, precise. Pensiamo a Il solito sesso, o anche all’ultima
Mentre dormi.
- «Quest’ultimo brano è, in questo senso, esemplare per me: forse
non descrive una condizione unica di trasferimento affettivo... Si
riferisce uno stato più primordiale, prima ancora che certe cose vengano
incasellate nei consueti spazi retorici. Mi ripeto: la musica ha il
compito delicato di generare stati d’animo». - Una musica
può fare... ma può fare anche male!
- «Verissimo, per questo si deve avere molta responsabilità, gusto
e onestà nel farla. Pensare che in ambiti mistici, metafisici, la
musica è uno strumento per tramandare concetti, spesso importanti.
Come per la poesia, nelle culture orali ha sempre svolto una funzione
legata al passaggio di sapere, di sapienza». - Cambiando
argomento: quanto ti è durata la gavetta?
- «La sto ancora facendo... [ride] Sto imparando adesso a essere
giovane! La gavetta dura quanto deve durare, è difficile parlarne
in senso generale perché, specie in ambito artistico, i percorsi sono
sempre personali, non perfettamente definiti». - Te lo
chiediamo perché Possibilia ha intenzione di proporre una serie di
riflessioni sul concetto contemporaneo di gioventù e la fase della
gavetta ci sembra determinante in tal senso.
- «Io ho cominciato molto presto a suonare, quando vivevo ancora in
Belgio. Prima di tornare a suonare in Italia ho viaggiato moltissimo:
Belgio, Olanda, Inghilterra, Francia. Sono stato per qualche anno
con una band inglese, ho suonato jazz, molti generi musicali, facendo
anche il turnista». - L’esperienza fuori ti ha aiutato,
appari come un cantante più “aperto” di altri…
- «Probabilmente sì, la mia formazione musicale nasce in Inghilterra
e in Belgio. Non lo dico per darmi arie, è così: sono cresciuto là,
in quel contesto, i dischi che ho ascoltato erano per lo più di musica
britannica. Poi, ovviamente, gli orizzonti si sono ampliati. Per un
musicista, guai se non fosse così». - Anche il tuo modo
di suonare il basso è peculiare, sempre molto legato alla canzone
e non all’esibizione virtuosistica.
- «Sono d’accordo. Per me quello che conta è la riuscita del brano,
non la soddisfazione personale d’aver dimostrato la perizia tecnica.
È una cosa molto importante, legata ai bassisti che mi hanno, in qualche
modo, ispirato. Su tutti, penso a Jack Bruce, ma i modelli sono assolutamente
svariati e spesso contemporanei. Ho ascoltato moltissimo gli Weather
Report di Jaco Pastorius e, allo stesso tempo, studiavo Charlie Mingus,
e quindi jazz. E poi Marcus Miller e, ovviamente, Paul McCartney,
irrinunciabile». - E come autori di canzoni?
- «Onestamente, non sono mai stato un beatlesiano: direi che i Beatles
li ho seguiti, certo, ma ho imparato ad apprezzarli veramente nel
corso degli anni, finendo poi per studiare certi loro brani. In definitiva,
posso affermare di essermi ispirato tanto a Pastorius quanto a McCartney,
perché le linee di basso dei Fab Four erano stupende, spesso semplicissime
ma geniali, nessuno aveva mai pensato di suonare in quel modo prima
di allora». - C’è da dire che Paul suonava con il batterista
più geniale della Storia.
- «Geniale e sottovalutato. È molto importante per un bassista il
rapporto sonoro, musicale, che riesce a instaurare col batterista.
È importante raggiungere un equilibrio per non risultare freddi, distanti».
- Sembri molto legato agli anni Settanta.
- «Direi di sì. Come ascolti, oltre a chi ho già citato, devo dire
di aver coltivato molto la passione per i Genesis, per Peter Gabriel,
ma anche i musicisti che suonano o hanno suonato con lui. Impossibile
dimenticare Tony Levin, da questo punto di vista, uno dei bassisti
che mi ha più influenzato: anch’io uso bassi Musicman, adoro quel
suono. E allo stesso tempo, devo citare i Police, anche se, al loro
scioglimento, ho seguito più le evoluzioni di Stewart Copeland piuttosto
che la carriera, grandissima, di Sting». - Per non dimenticare
Andy Summers, il meno citato, ma non meno geniale dei Police.
- «Anche quello un miracolo. Vedi, l’importante non è essere bravi,
ma l’alchimia che si riesce a creare. Puoi anche prendere tre mostri
di bravura, metterli insieme e non ottenere niente di buono. Se invece
trovi dei musicisti “giusti”, il livello tecnico passa necessariamente
in secondo piano». - E in Italia? Chi ascolti?
- «Ho smesso, ultimamente, di seguire con troppa attenzione. Però
ci sono cose che mi piacciono, che mi sono piaciute. Andando qualche
anno indietro penso ai Bluevertigo, qualcosa dei Baustelle, di certo
i Subsonica. Però è difficile seguire il panorama: il mondo della
musica è molto cambiato dal punto di vista del consumatore, in più,
facendo questo mestiere, si ha sempre meno tempo a disposizione per
dedicarsi a una fruizione tranquilla. Senza contare che le novità
fanno sempre molta fatica a uscire». - Che cosa dovrebbero
fare un artista o un gruppo, con un bel disco in mano non ancora pubblicato,
in Italia al giorno d’oggi?
- «Non fuggire: restare qua, con caparbietà, volontà. Cercare la coscienza
e la convinzione di quel che ha fatto. Io credo molto nella determinazione,
nel pensarsi convinti di ciò che si sta facendo. La discografia non
supporta nessuno, e sta agli artisti creare condizioni per poter far
sentire la propria musica: le difficoltà sono sia dal punto di vista
live che da quello discografico. Non bisogna arrendersi e bisogna
sbattersi, sperando di trovare l’onda giusta. E porsi obiettivi a
breve scadenza, non troppo lontani per non restare delusi, ma sempre
cercando di andare avanti». - Stesso discorso vale per
le testate nuove come la nostra, no?
- «Proprio così. Continuate e andate sempre avanti. Ciao, Possibilia». |
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