Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto © Vittorio Di Giacinto |
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Intervista: Massimo
Fini e la gioventù Che fare?
La partecipazione diretta Vecchi
da rottamare in un Paese governato da vecchi. E i giovani? “Dovrebbero
innescare una rivolta violenta”. di
Igor Vazzaz |
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Massimo Fini: 67 anni, giornalista, scrittore,
negli ultimi anni anche autore e attore teatrale, portando sulle scene
quello che, per un guazzabuglio tipicamente italiano, era stato censurato
sulla tv pubblica, Cyrano, trasmissione televisiva declinata in spettacolo.
Difficile dare una definizione esauriente di questo “irregolare” della
stampa e della cultura italiana. Bestia rara, Fini, che tende, beandosene
un po’, a rifuggire le semplici classificazioni, politiche o ideologiche,
rivendicando una libertà e un nomadismo di pensiero che gli acquisiscono
in egual misura amici e nemici, a destra come a sinistra. Protagonista
di prese di posizione tutt’altro che scontate, lo intervistiamo su
uno dei temi che, direttamente o di riflesso, lo hanno interessato.
- La gioventù, categoria insidiosa, specie nell’Italia
contemporanea: se ne dovessi dare una definizione, quale sarebbe?
«Sarebbe opportuno tornare alla ripartizione romano-latina, in cui
l’infanzia era considerata l’arco d’età dalla nascita ai quattordici
anni, la giovinezza sino a quarantasei, la maturità sino a sessanta,
la vecchiaia oltre. Però si tratta di un punto di vista molto lontano.
Viviamo in un’epoca in cui le distinzioni sono saltate: pensiamo il
Sessantotto, con la sua esaltazione dei giovani (dato che la categoria
era divenuta quella dei nuovi consumatori) e la conseguente negazione
della vecchiaia. Oggi un vecchio deve comportarsi come un giovane,
consumare come un giovane, fare maratone in cui s’infatua a scopare
anche se non ne ha più voglia. Se invece è vecchio e lo dimostra,
è automaticamente out. D’altro canto, questo prolungamento, velleitario
e fittizio, di una falsa giovinezza, fa sì che vecchi non si tolgano
mai dai coglioni. E ne hanno anche delle buone ragioni, dato che se
dimostrano d’essere quello che sono vengono considerati automaticamente
da buttare». - Impossibile parlare di gioventù senza definire
il suo opposto. «Un tempo il vecchio era il custode del sapere,
aveva un ruolo definito e rispettato. Oggi non è più così, viene costantemente
superato, complice l’inarrestabile innovazione tecnologica. Carlo
Maria Cipolla, storico, sosteneva che il vecchio “nella società agricola
è il saggio, nella società industriale un relitto”. Se aggiungiamo
poi che il nostro è il Paese col più basso tasso di natalità al mondo,
anche rispetto allo stesso mondo occidentale, il quadro è abbastanza
sconfortante. Se poi ci confrontiamo con l’Iran, le nazioni africane
in genere, il divario è abissale, anche come età media della popolazione».
- Il confronto tra vecchiaia e gioventù è al centro di un
tuo libro. «Sì, è Ragazzo. Storie di una vecchiaia
[Venezia, Marsilio, 2007, NdR], in cui parlo della vecchiaia, di cosa
è sempre stata, ma anche di come si è ridotta oggi, al di là della
retorica per cui “vecchio è bello” o il vecchio non esiste. Un sondaggio
recente ha riportato che la maggioranza degli ottantenni non si ritiene
vecchia, anche se la vecchiaia resta sempre un’età difficile da vivere.
Tanto più se si è soli, come accade sempre più spesso». -
C’è un legame tra la perdita di centralità degli anziani e il nostro
modo di relazionarci con il mondo. Finché il racconto rappresentava
un passaggio di esperienza, la terza età era vista come una risorsa
inestimabile; in un’epoca in cui l’informazione è massiva, imperante
e brucia tutto, la memoria perde valore e funzione… «Certamente,
quelle erano società a trasmissione orale, la narrazione era il mezzo
più alto di comunicazione. Adesso viviamo in società a trasmissione
virtuale, neppure scritta, per cui il vecchio è del tutto inadatto.
Qui incontriamo un secondo paradosso: nonostante l’irrimediabile svalutazione
dell’anzianità, noi, e parlo dell’Italia, abbiamo una classe dirigente
di vecchi. Il presidente del Consiglio ha 74 anni, il suo consigliere
principale, Letta, ne ha 75; sono considerati “giovani leoni” personaggi
che si avvicinano, quando non li hanno superati, ai 50. Se pensiamo
a società antiche, in cui a comandare erano giovani che però tenevano
in altissima considerazione gli anziani e i valori che rappresentavano
e vediamo la nostra, che, da un lato, squalifica ed emargina i vecchi,
mentre, dall’altro, non se li leva più di torno, possiamo ben capire
in che situazione assurda ci troviamo: un mondo che esalta il giovane,
ma fa comandare a oltranza i vecchi.
Quanto all’informazione, si deve ammettere come questa sia eterodiretta,
mediata, ti attraversa senza lasciarti praticamente niente. Il contrario
del racconto, quello del nonno, quello vissuto, che è, o almeno era,
esperienza». - La notizia non è esperienza, come a dire
che l’informazione non forma né informa... «Io direi che disinforma,
sia per eccesso d’informazione - perché troppe notizie fanno solo
aumentare a dismisura il rumore, senza rendere nessun servizio - sia
perché non siamo in nessun modo in grado di controllare l’informazione».
- Detto da chi di mestiere fa il giornalista, è una considerazione
amara... «Molto amara, sicuramente. Io credo che sui media
non ci si debba fare troppe illusioni né troppa retorica. Il primo
giornale ufficiale su carta stampata risale al 1631: era La Gazette,
diretta da Théophraste Renaudot, praticamente in mano al cardinale
Richelieu. Anche il primo quotidiano tedesco, di cui adesso mi sfugge
il nome [Relation aller Fürnemmen un gedenckwürdigen Historien,
pubblicato da Johann Carolus, NdR], era in mano a un altro potentato.
I giornali, proprio per questo, godevano di pessima stampa, il pubblico
era, e anche questo è un paradosso, molto più scaltro di adesso. Pensa
che il primo quotidiano italiano, fondato da Luca Assarino nel 1646,
s’intitolava Il Sincero, come a dire “noi vi diciamo la verità,
gli altri raccontano palle”: non era un caso. Purtroppo, Acciarino
era una spia al soldo del principe di Piemonte: mai credere a chi
si proclama sincero. Trovo assai difficoltoso, infatti, fidarmi di
giornali che si chiamano Libero, per esempio...» -
In effetti... Però è anche vero che per i giornali il nome è indicativo
ed è ovvio che esprimano certi concetti. Tu stesso hai scritto per
L’Indipendente. «Sì. Per la verità L’Indipendente,
il primo, quello diretto da Feltri, era davvero indipendente. Solo
dopo lui si è sostanzialmente venduto a Berlusconi. Lasciando il caso
singolo, è comunque inevitabile che, al giorno d’oggi, una rete televisiva
o un organo d’informazione che ambisca ad avere grande visibilità
abbiano bisogno di investimenti talmente grandi da favorire la concentrazione
nelle mani di chi ha più potere». - Questo discorso si
lega a certe tue riflessioni sulla democrazia, penso al tuo libro
Sudditi. Manifesto contro la democrazia (Venezia, Marsilio,
2004). «Certo. Non è un caso se i giornali si chiamano anche “strumenti
del consenso”. Utilizzati al solo scopo di rafforzare, guadagnare
consensi, in senso elettorale ma non solo, il compito di informare
correttamente è, quando va bene, in secondo piano». -
Senza contare che il problema giovanile, per così dire, si rispecchia
anche nel mondo del giornalismo, dove la gavetta è infinita e, soprattutto,
coincide con la fame. «Siamo in una situazione ai limiti dell’indecenza.
Gli spazi sono pochissimi, e anche i ragazzi con delle qualità, che
magari riescono a proporre cose interessanti e lavorare bene, presto
o tardi sono costretti a cambiare mestiere o ad andare via. Il meccanismo
a collo d’imbuto non è proprio soltanto della politica italiana, anzi».
- La difficoltà di selezione è comunque comune a tutti gli
ambiti, pensiamo all’università. «Mio figlio ha tentato la
carriera accademica, da matematico, ma si è trovato, dopo vari anni
di vassallaggio, con le strade chiuse: concorsi cui gli veniva detto
di non partecipare, una situazione imbarazzante. Dopotutto, il vecchio
sistema baronale non è mai interamente tramontato.
Ma è l’intero Paese a versare in situazione disperata: abbiamo un
presidente del Consiglio che ha passato gli ultimi quindici anni a
squalificare la magistratura, in una regressione di cultura istituzionale
senza precedenti». - Che cosa dovrebbero fare i cosiddetti
giovani, secondo te? «Se ne avessero le energie e le capacità,
dovrebbero innescare una rivolta violenta. Altrimenti verranno tenuti
a bagnomaria sino a che non saranno vecchi, come sta in effetti accadendo.
Naturalmente in questa loro inerzia giocano un ruolo tante cose, la
struttura della nostra società, l’educazione, l’istruzione. Però,
se si accentuasse la crisi economica, come peraltro non è escluso,
credo che potremmo assistere a qualcosa di nuovo, che il tappo davvero
possa saltare». - Certo che se il tappo saltasse, non
lo farebbe più su scala nazionale... «Il tappo salta su scala
occidentale. È l’Occidente l’àmbito: stiamo parlando dell’Italia,
che può anche essere un caso particolare, ma è il modello occidentale
ad aver generato e a soffrire di queste contraddizioni sempre meno
sanabili.
Un sistema basato sull’accumulo ininterrotto, su un’idea di progresso
inarrestabile, ma soprattutto sull’invidia come molla del progresso
sociale. Lo dice molto bene Ludwig von Mises, uno dei teorici più
estremi ma anche più coerenti dell’iniziale capitalismo. E dice anche
un’altra cosa di questo modello, ossia che proponendo il principio
per cui non è bene accontentarsi di ciò che si ha, si condanna inevitabilmente
l’uomo a non essere felice. Se non si fa a tempo a raggiungere un
obiettivo che si deve di necessità puntarne un altro, è ovvio che
non c’è tregua se non la morte. Un gruppo musicale, tempo fa, aveva
sintetizzato bene tutto questo in uno slogan: “Produci consuma
crepa”, non ricordo chi fossero...» - I Cccp Fedeli
alla linea, punk filosovietico e melodica emiliana, pieni anni Ottanta.
Pensa che il loro cantante e leader carismatico, Giovanni Lindo Ferretti,
si è scoperto pensatore ultracattolico e scrive per Il Foglio
di Ferrara... «Vabbè, faccia quel che gli pare. Il “Produci
- consuma - crepa” resta comunque una fotografia perfetta di un certo
sistema che non può che produrre insoddisfazione, frustrazione, infelicità».
- È l’ipertrofismo implicito della produzione capitalistica.
«Non solo del capitalismo, anche del marxismo, se fosse sopravvissuto.
Entrambi, del resto, sono facce della stessa medaglia, quella dell’industrialismo,
modelli che hanno pensato di vedere nella produzione industriale (nascono
infatti da quella rivoluzione) la chiave per garantire una vita piena
e felice ai popoli. Mi pare evidente che si trattassero, in buona
o cattiva fede, di utopie irrealizzabili. Entrambe fondate sull’economia,
sul concetto che l’uomo possa essere ridotto soltanto alla sfera economica:
è una vera beffa pensare che, poi, il capitalismo stia fallendo proprio
sul campo dell’economia, quello eletto come suo ambito principale».
- Tu sei una sorta di “problema” per la stampa italiana, dato
che sia da destra sia da sinistra sei guardato con un certo sospetto,
quando non con censura. «Non so se il problema sono io, che
non appartengo a nessuna delle due “bande” imperanti. Forse il problema
sono loro, nel senso che chi ci rimette in termini di spazio e di
lavoro è il sottoscritto. Buffo: ai tempi della lottizzazione, con
tre “chiese”, lavorare non era un gran problema, perché si creavano
comunque degli interstizi, degli spazi. Adesso, con due parti contrapposte
è durissima per chi non si allinea, per chi non si conforma.
Quando lavoravo al Giorno diretto da Guglielmo Zucconi, avevo
una rubrica dove scrivevo delle cose pazzesche, anche sui partiti:
una volta inneggiai al generale turco che li aveva aboliti per cinque
anni, per poi ripristinarli dopo un periodo passato a riorganizzare.
E Il Giorno era comunque il giornale dell’Eni. Alcuni miei
pezzi sarebbero stati “forti” per qualsiasi altra testata. Zucconi,
quando lo accusavano di essere troppo prono ai partiti, diceva “Leggete
quello che scrive Fini”, quando invece arrivavano proteste per i miei
articoli, replicava: “Sì, ma Fini è un pazzo, non dovete prenderlo
sul serio”. Era una paraculata, ovviamente, ma permetteva di pubblicare
cose eterodosse. Adesso questo non accade, specie se si considera
il bacino d’utenza delle testate. Ma era tutto diverso: senza voler
azzardare paragoni improvvidi, negli anni Settanta sul Corriere
scriveva Pasolini; adesso chi abbiamo?» - Sono le condizioni
a essere cambiate. Pensa un po’ al paradosso implicato dalla parola
“anticonformista”. «E infatti la rubrica che tenevo sull’Europeo
si chiamava Il conformista. Adesso il ribaltamento è talmente
diffuso che è impossibile orientarsi. C’è il vuoto del consenso e
le voci dissonanti sono quasi sempre relegate a spazi sempre minori».
- Hai ancora progetti teatrali? L’esperienza di Cyrano è stata
interessante. «Sì, stiamo lavorando con un’attrice e un regista
per provare a tradurre in forma scenica il cosiddetto “Fini-pensiero”.
Una sfida interessante, anche perché il teatro, al contrario della
virtualità imperante a livello massmediatico, è contatto con il pubblico,
presenza fisica, voce. Una versione, in ambito artistico, di qualcosa
che dovremmo sperimentare in tutti gli altri campi: la partecipazione
diretta, l’unica strada per ripensare un mondo migliore, o almeno
provarci, giovani e vecchi». Igor Vazzaz,
toscano di origine friulana, si occupa a vario titolo di teatro,
tv, musica (come cantante e autore), satira, cultura, collaborando
con l’Università di Pisa e varie testate. www.igorvazzaz.blogspot.com,
www.myspace.com/tarantola31 |
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