Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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Un sentito ringraziamento
ad Anna Gaetano
per averci gentilmente concesso questa foto |
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L’irregolare conteso
e la sua voce interprete del nostro tempo “Ma
chi me sente?” Ascoltare...
e forse capire Rino Gaetano. di
Igor Vazzaz |
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L’irregolare conteso
Triste destino per gli irregolari. Se in vita si può essere
apprezzati e stimati, dalla morte non c’è difesa che tenga. Il destino
è quello dell’equivoco, quando va bene; del tradimento, nella maggior
parte dei casi. La nostra epoca, in cui tutto è merce da vendere o
sfruttare per vendere altra merce, non fa che accentuare il processo,
talvolta con risultati tragicomici: così, la réclame d’un noto istituto
creditizio, ormai specializzato in musica d’autore, ha per colonna
sonora la voce di Rino Gaetano nel suo primo successo discografico,
Ma il cielo è sempre più blu (1975). Accostamento ardito: una
banca si serve d’un brano in apparenza allegro che, in realtà, parla
d’indifferenza, di dolore ignorato. I pubblicitari o non l’hanno capito
o hanno confidato che il ritornello, isolato dal contesto, esprimesse
un senso ben diverso da quello della canzone vera e propria.
Da tempo, il volto stilizzato di Gaetano campeggia sui muri di mezza
Italia: iniziativa di Casa Pound, formazione post-fascista che così
cerca d’appropriarsi simbolicamente del cantautore. I responsabili
della campagna hanno dichiarato di voler rimediare allo scempio d’una
fiction Rai colpevole d’aver gettata cattiva luce sull’urlatore calabrese.
La questione era, ed è, un’altra: la nuova destra ha fame di personaggi
che parlino all’oggi e, nell’assenza di cantautori (Massimo Morsello,
definito spericolatamente il “De Gregori nero” è conosciuto da pochissimi,
non senza ragioni), ripiega su un artista poco inquadrato e per di
più morto, così non reclama.
Non è la collocazione politica di Gaetano a interessarci: rischieremmo
il pantano di schemi vecchi, sebbene corra l’obbligo di ricordare
come egli fosse stato di sinistra, senza esporsi troppo nelle canzoni.
Poetica, non politica: «Non so mettere in musica le lotte studentesche
o il movimento operaio, non perché non ci creda o non ci sia dentro,
solo che non ne sono capace», dichiara nel 1978 a Sanremo.
Le querelle su “a chi appartenga Gaetano” (i Ds lo scelgono
come colonna sonora dell’ultimo congresso scatenando le ire di An,
gli studenti dell’Onda protestano sulle sue note, quelli di destra
pure) non sono interessanti in quanto tali, ma sono l’indice di come
i suoi dischi non abbiano ancora smesso di parlarci e di come l’essere
irregolare, non omologato, consenta spesso appropriazioni indebite,
perverso contrappasso per cui il pregio dell’indipendenza muta nel
suo esatto contrario. Voci sopravviventi, voci cristallizzate
Altro aspetto della questione è il grado di cristallizzazione che
segue alla morte d’un artista, specie se questi ha avuto la bravura
o la fortuna di reggere l’urto degli anni, qualità tanto importante
quanto insondabile al momento in cui una carriera è in corso. Non
si tratta di celebrare una grande voce, come cantante e come autore,
ma di provare ad andare oltre all’usuale sequenza d’attributi, pure
giustificati, che si è soliti attribuirle. Il mercato ha bisogno di
fruibilità e per questo semplifica, incasella in generi, sfruttando
la vocazione all’archivio della comodità commerciale: Gaetano, negli
anni, è divenuto quello di Gianna e del Cielo sempre più
blu, trascurando però lo spirito delle sue canzoni, le tematiche,
le parole, mummificato in un’immagine poco autentica. Fenomeno diffuso,
a dire il vero: basta pensare, tra gli altri, a Luigi Tenco, la cui
immagine popolare s’esaurisce nella dimensione di chansonnier
d’amore, ignorando del tutto le mille sfaccettature e le altrettante
sorprese di un artista più complesso di quanto si possa credere.
Scrittura, tra assurdo e parodia
Rino Gaetano ha sempre sfruttato il sense of humour, con immagini
paradossali e improbabili per sorprendere l’ascoltatore. Vedere i
titoli delle canzoni, prima ancora dell’ascolto: Mio fratello è
figlio unico, Escluso il cane, Nuntereggae più.
Una vena irridente percorre la sua opera, come se il sorriso e l’assurdità
fossero le uniche maniere di cogliere l’essenziale delle cose, l’inevitabile
contraddizione del mondo. È lo stesso Rino a farsi fool e cantore
di personaggi buffi, ferrovieri disperati, lascive tessitrici, caimani
ammaestrati: situazioni tratteggiate con poche parole, rapidissime
pennellate su una tela variopinta. Ma il cielo è sempre più blu,
nella sua totalità di canzone monstre da otto minuti e passa, è lampante
esempio di accostamenti fantasiosi, fulminanti, ambivalenti: uscito
come 45 giri, il brano è suddiviso in due (i lati del vinile) e presenta
una carrellata di situazioni, flash fotografici con la feroce rapidità
del montaggio frammentato e nervoso d’un videoclip. Non c’è asse portante
in quel flusso ininterrotto di esistenze strampalate, se non il flusso
medesimo, la totale indifferenza del mondo anche di fronte alle situazioni
più tragiche. Il cielo è, però, “sempre più blu”: lo scorrere denso
di fotogrammi casuali, Blob canzonettaro anni prima che Ghezzi e Giusti
andassero in onda, fagocita ogni fantasia possibile.
Non è solo talentaccio quello di Rino, ma creatività mista
ad applicazione, riscrittura e rielaborazione di esperienze artistiche
più varie di quanto s’immagini: il gusto absurdista era stato
ben alimentato dalla passione teatrale coltivata a scuola e nella
Roma delle cantine, da spettatore e teatrante in erba. Impossibile
che il Beckett di Aspettando Godot, in cui Rino si cimenta
sul finire degli anni Sessanta, non influenzi la sua vena, così come
l’incontro con la poesia di Majakovskij, col Pinocchio di Collodi,
affrontato prima da adolescente, poi sulla scena d’un mitico allestimento
di Carmelo Bene, nel 1981, in cui il cantante figura nei panni della
Volpe. Scrivere e riscrivere è passione che lo avvince sin da ragazzo:
alle medie inizia una parodia dell’Inferno dantesco il cui
buffo incipit recita profeticamente «In illo tempore
quando Betta filava, dall’infima melma nacque all’oscuro, un tipo
che dall’aspetto pareva un buro. In quel tempo quando Betta filava
(…)». Riso fecondo
Ogni segmento della troppo corta carriera di Rino (dal ’73 col singolo
I Love You Marianna al maggio ’81 con la strana formula del
Q Disc intitolato Q Concert assieme a Riccardo Cocciante
e i New Perigeo) evidenzia il gusto per le contraddizioni pregne di
significato, il paradosso che coglie l’ascoltatore in un istante di
dubbio sciolto poi nell’abisso d’una risata. Si pensi a «E Berta filava
e filava con Mario e filava con Gino e nasceva il bambino che non
era di Mario che non era di Gino». Il gioco sul verbo filare
consente a Rino di sfruttarne l’ambiguità lessicale, non senza una
citazione che sfugge ai più: «È passato il tempo in cui Berta filava»,
detto popolare diffuso in varie regioni italiane e riferito, si dice,
alla beata Bertrada, madre di Carlo Magno e protettrice delle filatrici.
Giocare con suoni e significati è per Rino il modo migliore per suggerire
anziché dire, per esprimersi con ironia, compiendo una ricerca,
se non cólta, alquanto accurata. Il languido andamento di Sfiorivano
le viole (1976) tratteggia un amore balneare: l’atmosfera latina
cede a uno slow in cui la voce, prima languorosa, torna a strapparsi;
la voluttuosa attesa dell’amata si rovescia nel coro che ripete «Oh
yeah, mentre io, oooh yeah, aspettavo te» e la melodia strillata del
cantante alterna immagini tanto pazzesche quanto efficaci: «il marchese
La Fayette ritorna dall’America importando la rivoluzione e un cappello
nuovo». Ciò mentre lui aspetta lei. Poco oltre: «Otto von Bismarck-Schönhausen
per l’unità germanica si annette mezza Europa», sino al trionfale:
«Michele Novaro incontra Mameli e insieme scrivono un pezzo tuttora
in voga», col vezzo di citare il misconosciuto coautore del nostro
inno.
I personaggi di Gaetano sono pazzi, allampanati, innamorati, con una
personalissima lente per inquadrare la follia della realtà. Dare voce
a queste figure è non solo un modo di suscitare riso e sorpresa, ma
anche testimonianza del proprio amore per i deboli, per gli indifesi.
Gaetano è una risposta meridionale, sporca e contadina a un altro
grande fool, quell’Enzo Jannacci, meneghino di natali e idioma,
le cui canzoni mettono da sempre in scena barbùn, ubriachi,
strambi esclusi a vita che urlano «Vengo anch’io!» ottenendo
puntuali rifiuti. Inferno e canzoni
I brani di Rino, anche quelli in apparenza innocui, sono scrigni dal
doppio fondo che attendono d’essere aperti: il segreto, talvolta in
superficie talvolta celato dall’umorismo, sta in un dolore assoluto
e innato, che la voce del cantante ha il merito di esprimere fisicamente
prima ancora che con le parole. Una sofferenza difficile, oltre i
limiti d’una biografia sofferta ma non più di altri coetanei, che
affonda le radici in qualcosa di sommerso: solo un artista può dare
forma a ciò che l’uomo sente senza poterlo esprimere del tutto. Per
questo la vita di Gaetano, le origini calabre, le immagini ricorrenti
d’un Sud rurale coi suoi vini ruspanti, i cardi, i fichi d’India (Ad
esempio a me piace il sud, 1974), da sole non spiegano il miracolo
d’una creazione artistica. Così come la povertà sofferta a Roma, il
seminario frequentato: i missionari del Sacro Cuore a Narni sono la
miglior soluzione per due genitori che, nei primi anni Sessanta (Rino
è del ’50), lavorano in un’Italia in cui ancora non esistono strutture
per aiutare famiglie moderne. E proprio in seminario, il taciturno
ragazzo che ama Pitagora e la matematica sviluppa l’amore per la letteratura
e la parodia.
Non si può distinguere un Gaetano comico da uno tragico: facce della
stessa moneta, da essa indistinguibili. Il paradosso d’un “fratello
figlio unico”, immagine ironica, s’intreccia con la malattia (l’operazione
al fegato), con la prostituzione, col calcio (Chinaglia, simbolo della
Lazio scudettata, che non può passare al Frosinone), con la frecciata
sulla “mania” per Freud allora imperversante, per poi esplodere con
«gli sfruttati malpagati e frustrati» cui avvicinare un’imprevedibile
«e ti amo Mariù». Rino sfrutta ancora accostamenti eterogenei, però
Mariù non è un nome generico, una fidanzata qualsiasi: protagonista
d’uno dei pezzi più celebri del repertorio italiano, citandola Gaetano
testimonia l’assurda presenza dell’amore nelle situazioni più tristi,
il menefreghismo suscitato dalla felicità sentimentale, e punzecchia
la tradizione canzonettara che, in fondo, finisce sempre per “amare
Mariù” senza fare mai niente.
Per Gaetano, musica e canzoni non sono soltanto gli oggetti prodotti
dal proprio lavoro, le proprie opere d’arte, ma elementi centrali
della vita quotidiana, al punto che alcuni suoi brani finiscono per
parlare a loro volta di canzoni, metacanzoni, si potrebbe dire.
È il caso di una bella traccia di Nontereggae più (1978), E
cantava le canzoni. Qui ritroviamo il sud, nelle immagini e nella
lingua: ogni personaggio protagonista delle tre strofe, oltre ad amare
Bice, finisce a cantare «le canzoni che sentiva sempre a lu
mare». Con ironia, Gaetano rivendica la centralità della canzone,
l’importanza del proprio mestiere, di una colonna sonora presente
in qualsiasi circostanza. In Nuntereggae più la sequenza di
sigle e personaggi, e la voce scocciata a ripetere il titolo, crea
un effetto liberatorio, anche se irreale (quasi tutti quelli citati
sono tuttora in auge): in coda al brano, la stilettata al cuore, quel
«mentre vedo tanta gente che non c’ha l’acqua corrente e non c’ha
niente ma chi me sente?» che è denuncia, urlo di dolore e, che è peggio,
rassegnazione. Rassegnazione tutta meridionale, che si porta addosso
miseria, impotenza, sopruso. Si pensi ad esempio ad Aida, inno
d’amore per l’Italia in una serie d’immagini contraddittorie: la personificazione
in una donna, la guerra, il fascismo, sino a quei «trent’anni di safari
tra antilopi e giaguari, sciacalli e lapin», che sono la condizione
stessa dell’autore, una specie di “fatica di vivere”, testimoniata
ogni giorno. Eppure, «Aida, come sei bella».
La carriera prosegue e i toni si fanno duri, il sarcasmo più cupo.
Variano i bersagli: la cementificazione selvaggia (Fabbricando
case), le contraddizioni della rivoluzione sessuale in cui il
vile maschio (Resta, vile maschio, dove vai, album del
’79) si trova spaesato, e il Sud, amato nella sofferenza, nel suo
essere Metà Africa metà Europa, brano poco ricordato che sfiora
con elegante coraggio il tema delle mafie.
L’ultimo album, E io ci sto (1980) è un nuovo approdo, meno
spiritoso: Gaetano, arrabbiato più che mai, indomito, non cede alla
speranza ma, al contempo, è disilluso. I “sogni di rivoluzione”, quella
rivoluzione mai precisata che spesso occhieggia dai suoi versi, innervano
il brano che dà il titolo all’album, ma svaniscono nella caustica
Ti ti ti ti, attacco ai «politici imbrillantinati che minimizzano
i loro reati», a una classe politica disposta a «mandare tutto a puttana
pur di salvarsi la dignità mondana». Proprio quest’ultima parte della
carriera ha alimentato l’ambiguità per chi, da destra, ha visto in
Gaetano una possibile voce amica, in un panorama cantautoriale “inquadrato”.
La genericità di certe sue espressioni lo rendono differente, più
vulnerabile, a patto d’ignorare la natura esistenziale dei testi.
«A te che ascolti il mio disco forse sorridendo giuro che la stessa
rabbia sto vivendo stiamo sulla stessa barca io e te»: non sono parole
di analisi, ma di angoscia, di incazzatura e impotenza. «Ma chi me
sente?» Più interprete che cantante
Al di là dell’autore, l’aspetto fondamentale di questo strano
artista è riuscire, più d’ogni altro, ad accompagnare il contenuto
dei brani con la voce. Non è abilità tecnica: non si può e non si
dovrebbe cantare come Gaetano, mettendo le proprie corde vocali a
repentaglio nel tirare l’acuto imprendibile, granuloso e strappato.
Nessun maestro di canto lo porterebbe a esempio per gli allievi. D’altronde,
la forza disumana delle sue canzoni è strettamente legata alle incredibili
doti d’interprete, al modo anti-virtuosistico di cantare, privilegiando
l’anima del pezzo a dispetto di un’anestetica perfezione formale.
Rino, nella sua disarmante modernità, è tecnicamente inconsueto, agli
antipodi dalle mode contemporanee, fatte di perfezione sonora, di
vocalità patinate, di virtuosismi da sbadiglio.
La sua voce scuote, tramortisce, vibra di sofferenza, prima ancora
che le parole giungano a destinazione: il suono trionfa sul discorso.
Usare l’ugola in modo tanto sconsiderato quanto efficace è il pegno
da pagare per esprimere ciò che non si potrebbe esprimere, per far
passare un contenuto non scrivibile, non raccontabile. Non siamo nei
dintorni della muscolarità esibizionista del contemporaneo Pappalardo,
macchietta ante litteram ben prima del ritorno trionfale nella
tv anni Novanta. Anche la scorrettezza tecnica richiede metodo e ragione
d’essere: Rino grida, sovraccarica, sgrana a raggiunger note faticate,
ma non compie mai sforzo gratuito, fine a se stesso. Tutto nel suo
canto è necessario e urgente, doppio sonoro perfetto di quell’impasto
di dolore e umorismo che sono le sue composizioni. Se proprio gli
si volesse trovare un compagno di voce, potremmo pensare all’amico
Cocciante (prima d’inventarsi “operista popolare”, i fortunatissimi
Notre Dame de Paris e Romeo e Giulietta appartengono,
secondo il loro autore, a un nuovo genere che unirebbe elementi della
lirica e cultura pop), prossimo per pathos, ma del tutto alieno da
qualsivoglia prospettiva spiritosa. La voce sgolata di Rino non è
solo specchio del dolore, ma strumento irridente, canto che si sottrae
al cantare, dribblando la sintassi per portare l’orecchio di chi ascolta
altrove, sorprenderlo. Gaetano ride e piange allo stesso tempo,
tocca la follia dell’assurdità, la rabbia dell’abbandono e la risata
è tanto più potente quanto è forte la percezione, sotterranea e ineluttabile,
di quella sofferenza insondabile, ben maggiore di quella comprensibile
a parole, più profonda e inconsolabile.
Questo il dono più prezioso dell’urlatore calabro. Ecco perché una
figura come quella di Rino Gaetano soffre più di altre la costrizione
endemica del mercato a posteriori, lo sfruttamento intensivo di chi
si ostina a considerarlo un trofeo da esibire in un panteon arbitrario.
Chissà cosa direbbe oggi di quest’Aida smembrata, umiliata nel ridicolo
d’un presente che ha smarrito il senso del ridicolo, lui che trent’anni
fa denunciava i mali di allora e, senza saperlo, i mali di adesso.
Chissà se i suoi dischi avrebbero continuato a incupirsi, a incazzarsi,
sarebbero sfuggiti alle attese e se, come i veri artisti che soffrono
matricole ed etichette, avrebbe avuto bisogno di cambiare, evolvere
e involvere, sfuggire alla banalizzazione. Di certo, se vogliamo rendergli
il giusto tributo, asteniamoci dal tirarlo per la giacchetta, dal
considerarlo un busto per qualsivoglia pantheon. Ascoltiamolo; magari,
arriveremo persino a capirlo. Igor Vazzaz,
toscano di origine friulana, si occupa a vario titolo di teatro,
tv, musica (come cantante e autore), satira, cultura, collaborando
con l’Università di Pisa e varie testate. www.igorvazzaz.blogspot.com,
www.myspace.com/tarantola31 |
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