Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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Confini / 1bis:
il carcere visto da ragazzi La
paura non esiste. O sì? Il
punto di vista di Stefano, educatore, che in prigione ha lavorato
per due anni con i giovani. Le loro speranze, le loro angosce,
le loro regole. E il pensiero di un futuro fuori, a volte.
di Giulia Pepe |
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Educazione: che parola affascinante. A essere più precisi,
ancora più intrigante è la sua etimologia. Dal latino e-ducere,
portare fuori, far venire alla luce qualcosa di nuovo.
Quando Stefano, 39 anni, mi ha detto di essere un educatore non avevo
pensato alla valenza della parola. Ma poi si è iniziato a parlare
dell’esperienza lavorativa in carcere, e quell’etimologia ha bussato
con prepotenza, si è fatta avanti diventando protagonista. Quale parola
potrebbero apprezzare di più dei ragazzi incarcerati se non quella
che significa “liberare, portare fuori”?
I ragazzi con cui ha avuto a che fare Stefano sono quelli del carcere
minorile Beccaria di Milano, che con lui hanno dato vita negli ultimi
due anni al laboratorio di cucina, uno dei cinque progetti messi a
disposizione dall’Enaip, Ente nazionale Acli istruzione professionale,
per i reclusi. Come mai hai iniziato a lavorare in carcere?
«Il carcere mette a disposizione queste attività per i ragazzi che
non devono andare a scuola, gestiti da persone con competenze professionali
ma senza trascurare le capacità educative. La mia passione per la
cucina e il mio mestiere mi hanno portato a collaborare al progetto».
Come funzionava l’attività? «I ragazzi stavano con
noi dalle 9 alle 12, ore in cui sono organizzati in attività educative.
Il laboratorio non è esattamente dove dormono i ragazzi ma sempre
all’interno del carcere; quindi non si usciva». Ma è un
corso professionale che dà delle referenze? «No, è solo un
modo per orientare al mondo del lavoro i ragazzi reclusi in base alle
loro preferenze». Che cosa lascia all’educatore un’esperienza
del genere? «Era da anni che volevo fare qualcosa in un contesto
di reclusione. Quando finalmente ci sono riuscito ho cercato di mettermi
in gioco il più possibile e di imparare anch’io qualcosa di nuovo.
Il laboratorio diventa un pretesto per stare con i giovani detenuti,
che all’inizio erano diffidenti e poi hanno cominciato a far funzionare
bene il progetto. La passione che si mette in questi lavori può fare
la differenza». Qual è l’età media dei detenuti che partecipano
al laboratorio? «Io avevo tutti ragazzi che avevano già compiuto
18 anni. In passato erano già stati qui». Non si può fare
a meno di chiedere quali nazionalità prevalessero. «Gli stranieri
ci sono ma a prevalere nel mio laboratorio erano gli italiani, soprattutto
nell’ultimo periodo». Soprattutto per quali reati scontavano
la pena? «Io ho visto di tutto. Negli ultimi tempi “vincevano”
le rapine, nel mio laboratorio». Oltre a questi laboratori
che cosa fanno i ragazzi in carcere? «Al pomeriggio hanno
alcune attività fisse, fanno sport oppure curano il giornalino. La
vita è abbastanza organizzata. E poi per due mercoledì al mese e il
sabato incontrano familiari e amici». Anche gli amici?
«In rari casi. In realtà penso che viste le difficoltà di ottenere
un permesso per un colloquio, dal momento che la precedenza è data
ai familiari, molti perdano i contatti con l’esterno». Si
dice che se uno non è un vero delinquente quando entra in carcere,
lo diventa stando dentro: è un luogo comune? Quanto c’è di vero?
«Direi poco. In realtà le vicende familiari e il contesto sociale
in cui vivono molti di questi ragazzi fanno sì che il carcere sia
quasi un rito di passaggio obbligatorio. Molti commettono un reato
non rendendosi conto delle conseguenze perché spinti da bisogni primari.
Se uno non può chiedere soldi ai genitori, è facile che decida di
andarli a prendere illecitamente». Il carcere rieduca
le persone che hanno questo tipo di esperienze alle spalle?
«Io ero scettico: non vedevo i penitenziari come luoghi di rieducazione.
Invece un po’ mi sono dovuto ricredere perché per molti giovani la
detenzione è un momento per riflettere. Quel tempo triste e a volte
angosciante serve molto a cambiare. Solo che poi arriva il grande
problema: “il dopo”. Purtroppo non c’è un vero aggancio tra le attività
carcerarie e l’esterno. Quindi questi ragazzi non possono provare
un altro modo di stare al mondo». Sembra che il carcere
sia un marchio indelebile che preclude ogni possibile cambiamento.
«No, la detenzione non preclude il futuro. È una cosa che cambia le
persone, certo. Alcuni ce l’hanno fatta a costruirsi un futuro, almeno
quelli che già “dentro” decidono che non vogliono più delinquere».
Si pensa al futuro mentre si è dentro? «Non posso
generalizzare. Alcuni ragazzi certo, altri se ne fregano. Soprattutto
perché la “maschera” del delinquente a molti serve. In certe culture
l’esperienza carceraria è qualcosa da sfoggiare». E se
parliamo di pentimento? «Non è una parola che senti. Pentirsi
è la cosa peggiore che possa fare un carcerato, dal loro punto di
vista. Insieme ai reati di violenza sessuale. Se entrano in carcere
soggetti che hanno commesso questo crimine oppure che si sono pentiti,
o magari anche solo che hanno detto la loro opinione, la situazione
diventa difficile da gestire». E la paura? «Anche
questa è bandita, in parte. In realtà la si legge in certi comportamenti,
o in piccole cose dette. Certo pubblicamente la paura è da “sfangare”,
questo è il termine usato dai ragazzi detenuti. Poi la si combatte
aggregandosi in gruppi». Gruppi etnici? «In realtà
c’è una buona integrazione in carcere e la convivenza non è mal gestita.
C’è un’aggregazione naturale data anche dal fatto che molti si conoscevano
perché prima dell’arresto vivevano nello stesso quartiere. Purtroppo
le aree di provenienza sono circoscritte. Poi certo, come in tutti
i posti in cui ci sono tanti giovani, c’è il gruppo di quelli che
si sentono più forti e quelli che potremmo definire un po’ “sfigati”».
Davvero si convive pacificamente? «Tendenzialmente
sì. Però ho visto risse iniziare perché qualcuno non trovava più il
tappo di una penna. Ma penso che la cosa non sia così strana».
I ragazzi riescono a mantenere i contatti con le realtà esterne
o sono completamente fuori dal mondo? «Ovviamente tutti i
mezzi di comunicazione più giovanili sono banditi. Niente cellulare
e niente internet». Che cosa significa per un adolescente,
irrequieto per natura, vivere in pochi metri quadrati? «La
reclusione non sarebbe un’esperienza facile per nessuno. Per ragazzi
come quelli del Beccaria stare “dentro” diventa una pena maggiore
se si pensa che molti sono cresciuti in strada, abituati a non avere
regole». Questi ragazzi devono fare i conti con la noia?
«Purtroppo la noia è uno dei nemici più forti per loro. Soprattutto
la sera, che già normalmente evoca scenari più malinconici anche per
chi vive una vita normale, può diventare un momento davvero angosciante».
Che cosa sognano i giovani carcerati? «A pari merito
abbiamo la libertà, ovviamente, e la famiglia. I parenti sono quelli
che mancano di più e i ragazzi non vedono l’ora di rivederli. Sembra
strano ma nonostante tutto questi giovani rimangono molto legati alle
famiglie, sul serio». È strano sì. In fondo le nuove generazioni
dovrebbero essere quelle che hanno perso i vecchi valori. Eppure quando
Stefano mi dice questa cosa mi viene in mente un’immagine. Un braccio
muscoloso, da vero duro, abbellito, si fa per dire, da un I love
mom circondato da un cuore. Forse il tatuaggio non andrà più di
moda tra i giovani detenuti, ma il concetto non è cambiato poi molto.
Giulia Pepe studia Lettere moderne all’università
Statale di Milano. Collabora con il quotidiano Il Giorno e con il
periodico Il Diario del Nordmilano, occupandosi soprattutto di eventi
culturali e sociali |
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