Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto © Hadi Yuswanto Djunae
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Confini / 1: il
carcere visto da “sopra” Perché
“dentro” siamo in troppi A
colloquio con Massimo Parisi, direttore della casa circondariale
di Monza. Ci spiega che cosa si fa e che cosa si potrebbe fare.
A iniziare dalle pene alternative. di
Giulia Pepe |
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Il primo pensiero è: «com’è difficile entrare in carcere». Il secondo:
«vai a dirlo a chi è lì dentro». Davanti a me un grosso portone blindato
elettronico, che si aprirà solo dopo molti minuti di attesa tentando
di uccidermi, per giunta. Dietro il portone c’è il penitenziario,
la Casa Circondariale di Monza. Non è una brutta struttura, non è
neanche troppo cupa. Ma c’è un però. Vedendola nessuno potrebbe negare
la sua funzione. Tautologicamente parlando il suo aspetto è proprio
carcerario.
Accompagnata da un poliziotto, arrivo nell’ufficio del direttore,
il dottor Massimo Parisi, che è qui da sei anni, e che conosce bene
la situazione del “suo” carcere. Partiamo dai dati tecnici.
Quanti detenuti ospita il penitenziario? «In questo momento
abbiamo 830, 840 detenuti. A fronte di una capienza che si aggira
intorno a 650. Con un surplus così elevato è ovvio che le celle da
due posti letto diventano da tre. In alcuni momenti si è dovuto ospitare
4 detenuti in una stanza. E questa è una evidente forzatura».
Ma le camere sono attrezzate per far dormire quattro persone?
«Quando sono arrivato qui il terzo detenuto dormiva su un materasso
appoggiato in terra. Abbiamo investito dei soldi per migliorare la
vivibilità, visto che crediamo che il vivere quotidiano debba essere
più dignitoso possibile. E quindi abbiamo comprato delle brandine
pieghevoli. Di recente, inoltre, abbiamo dotato tutte le camere di
frigorifero. Certo, l’aumento di detenuti non ci aiuta nella politica
di miglioramento». Indulto: promosso o bocciato? «L’indulto
è solo una soluzione tampone. Sarebbe meglio cercare misure detentive
e punitive diverse, come l’affidamento ai servizi sociali o il lavoro
socialmente utile». Descriviamo la popolazione carceraria.
«Negli ultimi anni gli stranieri hanno superato gli italiani. Il 55
per cento dei carcerati è immigrato. La percentuale dei tossicodipendenti
e degli alcol dipendenti è del 30-40 per cento. La maggior parte dei
carcerati starà dentro per 4 o 5 anni perché è arrestata per reati
legati al traffico o allo spaccio di stupefacenti. Poi c’è una quota
di detenuti con problemi psichiatrici, in continuo aumento. Questi
casi non fanno altro che aumentare la criticità dell’istituto».
E gli italiani sono solo quelli del distretto che fa capo a Monza?
«No perché abbiamo detenuti appartenenti al circuito di alta sicurezza,
membri della criminalità organizzata, e ovviamente provenienti dal
Meridione». Sono tanti i carcerati in attesa di giudizio?
«La maggior parte, sono 500. Non tutti però in attesa di primo giudizio,
alcuni attendono l’appello». Quindi ci sono 500 persone che
sono in realtà “presunti innocenti” per legge. «Esatto. Ovviamente
questo è un problema legato alla macchina burocratica della giustizia.
Macchina che spesso si ingolfa. Con alcune accortezze la situazione
potrebbe migliorare. Ad esempio sarebbe meglio valutare l’ipotesi
di detenzione domiciliare, per chi ha una casa». La casa circondariale
monzese è un po’ speciale perché ospita anche delle donne, giusto?
«Ci sono circa 120 detenute al momento, molte delle quali straniere.
Soprattutto sudamericane coinvolte nello spaccio di sostanze stupefacenti.
Il quadro dei detenuti è dunque abbastanza composito». Si può
calcolare una media dell’età? «30-35 anni. Però una cosa sconcertante
è l’aumento dei giovanissimi. Sono soprattutto giovani italiani, di
18 o 19 anni, arrestati per episodi vari quali la rapina, l’estorsione
o le risse». Secondo lei c’è un motivo? «Sono più che
altro aspetti sociologici a influire. Alcuni sono giovani problematici,
che vengono da aree cittadine che non aiutano. Altri invece ricercano
semplicemente l’adrenalina in queste azioni. E poi molti sottovalutano
molto la portata del reato, alcuni sono quasi fieri del loro comportamento
quando arrivano qui».
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Un ultimo numero: quello degli addetti di polizia
penitenziaria. «Il corpo all’attivo è di 380 secondini. E
la pianta organica è di 430». Direbbe che sono sufficienti?
«Noi viaggiamo un po’ al limite. Ci sono periodi e situazioni che
ci creano difficoltà. Essendo una casa circondariale, quindi ospitando
i detenuti che arrivano dalla libertà, dobbiamo svolgere alcune funzioni
particolari, come ad esempio il trasporto in tribunale dei carcerati.
In questi casi i nostri numeri diventano carenti. Però se parliamo
di polizia penitenziaria sarebbe meglio fare un ragionamento qualitativo
piuttosto che quantitativo». Si spieghi meglio. «Noi
puntiamo alla qualità e alla professionalità. Abbiamo bisogno di un
corpo capace di gestire le persone. Se si hanno persone competenti,
si possono evitare i gesti estremi. Conoscere i carcerati porta alla
risoluzione dei problemi, senza dover aspettare l’intervento delle
istituzioni. Certo, più sono i detenuti, più è difficile occuparsi
di loro e dei problemi». Ma è un’idea del carcere monzese o
una linea di pensiero seguita da tutti? «Dovrebbe essere un
obiettivo nazionale. Noi in più stiamo cercando di migliorare le condizioni
lavorative dei poliziotti in modo da creare un clima sereno. Un agente
che vive un rapporto conflittuale con il proprio lavoro trasmetterà
queste sensazioni al detenuto. Inoltre è giusto che la polizia si
occupi del carcerato, rispondendo alle richieste, dalle più banali
a quelle più importanti. In carcere sono tante le situazioni di degrado,
e vanno risolte con la collaborazione di tutti. Insomma la qualità
può sopperire alla scarsa quantità». È traumatica la vita in
carcere? «Noi cerchiamo di inserire il carcerato gradualmente,
accompagnato da una serie di specialisti per evitare situazioni di
estremo disagio. Le persone che commettono reati non devono essere
demonizzate. Quindi prima si fa la visita medica, poi ci si concentra
sull’aspetto educativo, con gli educatori, per valutare i vari casi.
Con l’aiuto degli psicologi si capiscono le condizioni dei nuovi ingressi.
Se il detenuto è tossicodipendente ci si rivolge al Sert interno al
penitenziario. In questo modo possiamo decidere l’ubicazione più idonea
al detenuto. Questo per rendere migliore del recluso e meno traumatica
possibile la vita». Quanti ingressi si contano al giorno?
«Sono 4 o 5 i carcerati che entrano ogni giorno, in media. Per una
casa circondariale come la nostra sono molti». Descriviamo
una giornata tipo del detenuto. «Ci sono dei momenti di vita
comune, come la cosiddetta “ora d’aria”, dalle 9 alle 11 e dalle 13
alle 15. Poi le attività si differenziano. Alcuni giorni c’è la possibilità
di fare attività fisica. Alcuni carcerati lavorano o fanno corsi di
formazione o attività istruttive. Nel pomeriggio poi si può andare
nella “saletta socialità”. Altre attività sono gestite dai volontari».
Quali attività si possono fare? «C’è chi si occupa della
biblioteca, altri sono impiegati in attività di falegnameria. Certo
le nostre attività non sono moltissime anche perché siamo una casa
circondariale, quindi i detenuti non staranno qui per lungo tempo.
Però abbiamo un territorio molto attento al carcere e quindi mettiamo
a disposizione tutte le risorse per nuovi progetti». Il territorio
si occupa del penitenziario? «È una cosa poco saputa ma è
così. Tutti i Comuni che fanno riferimento a Monza si autotassano
mettendo a nostra disposizione 10 centesimi per abitante. Questa è
una forma originale di mutuo soccorso per far apprezzare al detenuto
un territorio nel quale tornerà a vivere dopo la detenzione».
Che cosa si fa con questo fondo? «Oltre alle altre attività
è importantissimo il servizio di mediazione culturale, dato il numero
di stranieri. E poi ci sono tutti i progetti, gestiti con l’aiuto
del Comune, di accompagnamento verso l’esterno. La presenza del Comune
di Monza è forte nel carcere». Quante possibilità effettive
ha un detenuto di trovare lavoro una volta uscito di prigione?
«Le possibilità sono tanto più effettive quanto migliori sono le attività
e i progetti di reinserimento svolte mentre si sconta la pena. Se
si aspetta il fine pena generalmente non si ottengono risultati positivi.
Però sono pochi i carcerati che possono lavorare durante la reclusione».
Il numero dei recidivi è elevato? «Sì, in genere si ricomincia
a delinquere poco dopo aver riottenuto la libertà. Invece, secondo
le statistiche, tutte le persone che avevano aderito a progetti di
rieducazione hanno continuato a lavorare. Questo avviene perché si
fa capire al detenuto che quella è un’opportunità effettiva di cambiamento.
I carcerati possono essere molto riconoscenti quando capiscono che
c’è qualcuno che si occupa realmente di loro. E non parlando in termini
di compatimento». C’è una pacifica convivenza all’interno del
carcere? «La situazione non è critica. Però i litigi sono
frequenti, soprattutto quelli per motivi futili, dovuti alla convivenza
forzata. Dimentichiamo l’idea di un carcere in cui ci sono lotte per
la supremazia di una banda sull’altra. Anche se le aggregazioni di
natura etnica ci sono, le risse, che a volte poi si allargano, nascono
proprio per cose di poco rilievo. L’ultimo scontro avvenuto tra rumeni
e albanesi è nato da un problema verificatosi nelle docce tra due
singoli individui».
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I bagni sono comuni? «Le docce sì,
mentre il bagno è in cella». A chi è affidata la pulizia delle
celle? «Ai detenuti». Quanto può guadagnare un detenuto
che lavora durante la detenzione? «Se lavora a pieno ritmo
può arrivare anche a 600 euro al mese». Com’è il rapporto tra
carcerati e familiari? «Questo argomento mi sta molto a cuore.
Dato il numero elevato di carcerati è aumentato il numero delle famiglie
che ruotano intorno al penitenziario. Per questo abbiamo creato soluzioni
per far vivere in modo migliore l’incontro con i parenti. Abbiamo
creato una sala, la ludoteca, gestita da Telefono Azzurro, nella quale
i carcerati possono incontrare i figli. Chi commette un reato in genere
non svolge il suo ruolo genitoriale anche quando è in libertà. È importante
che non si annulli completamente questo aspetto. Inoltre abbiamo concesso
più ore di colloquio ai carcerati con figli e ampliato il numero delle
chiamate possibili». Gli ex carcerati sono considerati persone
cattive dalla comunità, secondo lei? «Per molti è un marchio
indelebile. Però il carcere deve diventare un luogo in cui si creano
delle possibilità di cambiamento. Il detenuto può scegliere la vita
che vorrà vivere. In questo momento dall’esterno il carcere è visto
solo come il luogo in cui si deve scontare la pena perché si deve
essere puniti. È sbagliato dare solo quest’incarico al carcere. Ci
sono casi in cui è giusto offrire possibilità concrete di redenzione,
anche perché questo conviene alla collettività». Si può parlare
di disagio psicologico del carcerato? «Certo. Fortunatamente
il numero di suicidi a Monza non è elevato: due casi in sei anni.
Però il disagio è forte. Soprattutto negli ultimi anni a essere recluse
sono le persone che subiscono, già all’esterno, una condizione di
grave emarginazione sociale. Questi trascinano in cella tutti i loro
problemi. In carcere alloggiano storie di grandi solitudini».
Quindi è in parte vero il luogo comune che vuole in carcere solo
i poveracci? «Sì purtroppo. E anche facendo un excursus storico
all’interno della mia carriera posso dire che la situazione sta peggiorando».
Un esempio concreto? «In passato i carrelli che trasportavano
il cibo tornavano molto spesso pieni. Adesso è molto difficile trovare
degli avanzi nei piatti. E i litigi sulla quantità di cibo sono frequenti:
sono in molti ad arrabbiarsi se pensano di aver avuto meno cibo di
un altro. Tanti sono i detenuti che chiedono disperatamente di lavorare,
pensando a quando usciranno. Molti invece non sognano con ansia la
fine della pena e di riconquistare la libertà perché sanno che all’esterno
non avranno una vita facile. Questo discorso vale soprattutto per
gli stranieri». Parlando di stranieri: secondo lei c’è un’etnia
più propensa al furto? Esistono popoli che commettono questo reato
più degli altri? «In linea di massima no. E non sarebbe corretto
pensare che ci sono ladri più furbi, che non sono in prigione. Se
qualcuno commette ripetutamente un reato prima o poi viene arrestato.
Se fosse vera l’accusa mossa ad esempio ai rom il carcere ne sarebbe
pieno. Mentre non è così». Giulia Pepe
studia Lettere moderne all’università Statale di Milano. Collabora
con il quotidiano Il Giorno e con il periodico Il Diario del Nordmilano,
occupandosi soprattutto di eventi culturali e sociali |
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