Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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Da Montagnani
a Benigni, fino alla "Generazione Cecchi Gori"
Della bufala toscana Microstoria
di una comicità (molto) moderna. di
Igor Vazzaz |
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Se è vero che la Toscana, regione connotata più di altre da identità
e Storia unitarie, vanta numerose qualità quanto a patrimonio artistico
e culturale, è altrettanto vero che alcune caratteristiche attribuite
alla sua popolazione - la naturale simpatia e la verve comica - sono
una mistificazione contemporanea. Non si tratta di bollare i toscani
come antipatici, quanto di sfuggire al malinteso che fa della gorgia
(la c aspirata, probabile retaggio fonetico etrusco) segno d'indiscussa
comicità, abbinata a bucoliche immagini collinari e sommarie reminiscenze
dantesche. A livello mediatico, il comico toscano è un dato dei nostri
tempi, ignoto prima degli anni Settanta. Il fatto che oggi sia percepito
alla stregua d'una tradizione spettacolare sedimentata (come quella
napoletana, l'umorismo ebraico o quello anglosassone) è un'occasione
per riflettere su quanto la comunicazione di massa riesca ad amplificare
o creare ex novo fenomeni a proprio uso e consumo.
Storicamente, i toscani non sono affatto considerati simpatici, ma
altezzosi, superbi, forti d'un umorismo malizioso, cinico e cattivo.
Curzio Malaparte, penna pregiata del nostro Novecento, ne dà
sintesi mirabile affermando che la loro ironia può mutar un matrimonio
in funerale e un funerale in farsa: «Quando gli altri piangono, noi
ridiamo, e dove gli altri ridono, noi stiamo a guardarli ridere, senza
batter ciglio, in silenzio: finché il riso gela sulle loro labbra».
È il 1956 e nonostante Ginettaccio Bartali, prima icona della
toscanità moderna («gli è tutto sbagliaho, gli è tutto da rifare!»
il suo refrain), i Maledetti toscani sono ancora “antipatici”
o, comunque, distanti dall'avere un'immagine univocamente legata al
riso, specie in relazione a teatro, cinema o spettacolo in generale.
I primi film e un grande attore È la comunicazione
di massa e non la secolare tradizione letteraria (peraltro non aliena
dalla comicità) a sdoganare la Toscana quale terra comica:
prima col Pinocchio di Comencini (1971), poi con Amici miei
(1975), film fondamentale per il nostro cinema, al tramonto della
commedia all'italiana. Il soggetto originale di Germi è ambientato
a Bologna: sarà Monicelli a trasferire le zingarate oltre Appennino,
realizzando il primo trionfo comico in salsa tosca. Notevole che tra
i cinque protagonisti di questo capolavoro politicamente scorretto
non vi siano toscani: nel primo capitolo Renzo Montagnani (nato
per caso ad Alessandria, ma di storica famiglia fiorentina) è doppiatore
di Philippe Noiret e solo a partire dall'Atto secondo interpreta
il barista Necchi, ruolo in precedenza affidato al piemontese Duilio
Del Prete.
Montagnani è peraltro una “cartina di tornasole” della nascente vague
comica: interprete di prim'ordine in scena e sugli schermi, linguisticamente
versatilissimo, nei numerosi film realizzati negli anni Settanta recita
in bergamasco, napoletano, veneto, romano (è lui la voce di Romeo
er mejo del Colosseo negli Aristogatti di Disney) e
solo in pochi casi in toscano, segno d'una tendenza in rapida affermazione,
ma non certo diffusa nei primi anni di carriera. Benigni
uomo-immagine
Lo spirito toscano moderno trova il suo profeta in Roberto Benigni:
è lui a consacrare, dal 1976, un umorismo (che era) sporco, livoroso
e grottesco, nutrito di terra e liquami.
Cioni Mario, primo alter ego dell'artista in scena, tv e cinema, ancorché
oggetto di meditata rimozione, è un Pinocchio moderno (ben più della
sciapa pellicola datata 2002), declinazione novecentesca d'uno Zanni
medievale, mostruoso ed eccessivo. Il monologo del debutto (Cioni
Mario di Gaspare fu Giulia, dicembre '75), è un florilegio di
poetiche sconcezze, invettive ferocissime (contro il padre, le donne
e Almirante, segretario dell'Msi) in un trionfo di turpiloquio e bestemmie
“alla contadina”. Non si tratta di volgarità gratuita, tutt'altro:
il linguaggio genitale, caratteristica principale dell'attore, è un'urgenza
espressiva mutuata dalla cultura di provenienza, dalla sua letteratura,
dal Dante dell'Inferno ai poeti giocosi sino alla tradizione
medievale dell'enueg, la forma poetica in cui si elencano le
cose spiacevoli dell'oggetto cantato. Quando, nello “scandaloso” monologo
(traslato prima in tv e poi, nel '77, sul grande schermo in Berlinguer
ti voglio bene) l'attore attacca “Almirante... Maledetta l'ora
il giorno e l'annata in cui la tu' mamma ti diede la prima poppata…”
l'effetto è devastante e il riso del pubblico una sorta di orgasmo
crescente man mano che le espressioni usate divengono più estreme.
Benigni fonde insieme elementi tipici dell'oralità e stilemi colti
(l'aggressione rituale, l'iperbole oscena, il gusto per il rovesciamento
carnevalesco), il contado toscano con Dante, Dostoevskij, Shakespeare.
Questa fusione grottesca lo rende unico,alieno del panorama
comico nazionale: la “sua” risata è grassa, ambivalente, il basso
corporeo, la materia escrementizia non sono solo segni di morte, ma
elementi di rinascita, trionfo. Si pensi alla sua hit più celebre,
L'inno del corpo sciolto, canzone peraltro scaturita dalla
lettura del Gargantua e Pantagruel di François Rabelais.
Se da un lato le radici fanno di Benigni il primo e massimo esponente
della toscanità moderna, egli è, per paradosso, attore romano: la
formazione artistica avviene nelle miticantine della capitale,
quelle dell'Avanguardia teatrale degli anni Settanta. E al già citato
Cioni per veder la luce farà da ostetrica Giuseppe Bertolucci (figlio
del poeta Attilio e fratello di Bernardo), prima spalla, maestro e
amico del futuro Oscar. Non solo: se le anteprime fiorentine del monologo
indignano il pubblico “popolare”, saranno le repliche romane, con
spettatori intellettuali ed esperti, ad avviare il talentaccio di
Vergaio al successo di massa.
Dai palchi off dei Seventies all'Academy hollywoodiana
i cambiamenti sono stati cospicui: Benigni si è col tempo addolcito,
ha smussato gli eroici furori, cambiato collaboratori (fondamentale
il passaggio da Bertolucci a Vincenzo Cerami) e assunto atteggiamenti
più concilianti, specie rispetto alla Chiesa. Tuttavia, il legame
con la propria terra, la povertà, un passato contadino che è biografia
reale e non vezzo costruito, si respirano ancora in certe gag come
nelle dichiarazioni. Il buffone di ieri è divenuto figura istituzionale
dell'oggi, ma, se la Toscana s'è inventata patria di comici, gran
parte del merito è da ascrivere a questo diavoletto imprendibile e
imprevedibile, alla sua natura terragna e a un retaggio culturale
che affonda le radici nella secolare miseria del contado d'una regione
dotata di un'identità univoca e complessa. Giancattivi,
gli altri pionieri
La prima ondata toscana sarebbe monca senza i Giancattivi,
nella formazione 1978 (Alessandro Benvenuti, Athina Cenci e Francesco
Nuti), che debuttano in tv sostituendo i napoletani La Smorfia
per la seconda edizione di No Stop, laboratorio di sperimentazione
comica assai più del celebrato (e poppettaro) Drive In
di qualche anno dopo.
Il trio, attivo dal 1971, si converte alla calata fiorentina più per
necessità che per convinzione: la dizione italiana di Nuti all'epoca
non è credibile. Portatori d'una comicità aggressiva e absurdista,
i tre vengono recepiti dai media come esponenti del filone che, complice
Benigni, si sta affermando. Le loro scene, basate su un'improvvisazione
spinta all'estremo, sono cattive, abilmente costruite intorno
a Benvenuti che tiranneggia il “povero” Nuti, con Athina Cenci pronta
a inserirsi, talvolta come spalla, talvolta come ulteriore carnefice:
il tutto, utilizzando un italiano sporco di toscano, con battute e
figure del linguaggio popolare. Ben presto pubblico e critica connettono
queste cattiverie all'immagine del toscano corroborata dall'iracondo
Cioni benignesco. L'effetto è quello di una linea, d'un movimento,
che di fatto non esiste. Il percorso di Benigni è del tutto diverso
da quello dei Giancattivi: se il primo emigra a Roma, gli altri stanziano
a Firenze dove, oltre a realizzare spettacoli tra cabaret e teatro,
svolgono una vera attività di promozione e organizzazione culturale.
Anche per Benvenuti, autore e leader del gruppo, i riferimenti culturali
non sono affatto regionali, tutt'altro: il teatro vernacolo fiorentino,
che pure conta alcuni grandi autori e svariati ottimi interpreti,
è visto come qualcosa di inerte e vecchio. Per capire bene i Giancattivi
si deve guardare al Teatro dell'Assurdo francese, a Frank Zappa, a
Orson Welles, a Jacques Tati e persino a Carmelo Bene, influenze che
il gruppo rielabora in termini comici e personalissimi.
La reale novità rappresentata dai primi toscani, se vogliamo, è proprio
questa: rivolgersi al mondo usando la propria cultura come trampolino,
senza esaurirsi in essa, forse pure “ignorandola”, dandola per scontata,
come dato di fatto.
Esemplare la battuta di Benvenuti a un giornalista, nel 1981, a proposito
della toscanità: «Woody Allen secondo voi è un attore dialettale di
Manhattan, New York?». Il decennio pop
Gli anni Ottanta sono il consolidamento della neonata scuola comica:
grazie al cinema, con i successi di Benigni (Tuttobenigni,
ma soprattutto Il piccolo diavolo) e di Nuti, all'epoca il
più fortunato in chiave popolare. Le pellicole del pratese non brillano
per originalità, le atmosfere risentono molto della lezione surreale
di Benvenuti (da cui Nuti si separa nell'81 dopo l'ottimo Ad ovest
di Paperino) e ben presto scadono con trucchi di bassa lega (schiaffoni,
banalità en travesti), a fronte di un'ottima tenuta di pubblico. Caruso
Pascoski di padre polacco (1988) è il momento migliore di una
carriera destinata, causa problemi personali, a declinare nell'arco
di un decennio.
Benvenuti prosegue un'ottima carriera d'attore e autore teatrale,
senza disdegnare il cinema, specie nella traslazione del suo capolavoro
in sceBenvenuti in casa Gori. A fianco dei tre “alfieri”, una
generazione di attori, autori e caratteristi, spesso compagni d'esordi
dei primi, alimenta e corrobora il novello filone: Carlo Monni,
Paolo Hendel, David Riondino, ma anche il drammaturgo Ugo Chiti
e altre figure minori, celebri per qualche stagione e poi ripiombate
nell'anonimato. Il bischeraccio e la banalizzazione
La vera svolta per la comicità toscana avviene però grazie a un altro
personaggio, non attore in prima persona, ma centrale e innegabilmente
comico: Vittorio Cecchi Gori. Alla fine degli anni Ottanta,
l'azienda di famiglia, nata e prosperata sotto l'attenta guida del
padre Mario, attraversa un periodo di grandi successi. Vittorio (detto
bischeraccio dallo stesso genitore) rileva l'attività e, complice
la moglie Rita Rusic (si maligna che sia lei a fiutare il business),
investe coraggiosamente su una generazione di nuovi talenti, divenuti
celebri grazie ad alcune riuscite trasmissioni del circuito televisivo
regionale. Si tratta di figure non troppo dotate, ma che, approfittando
della situazione, beneficiano di copiosi finanziamenti e riscuotono
ottimi consensi a livello nazionale. È infatti con Giorgio Panariello,
Leonardo Pieraccioni, Carlo Conti, Massimo Ceccherini e altri
ancora che la Toscana diviene genere, marchio vincente, in
modo tanto efficace quanto deteriore.
I film di Pieraccioni si basano su una Toscana da cartolina, decontestualizzata,
sono alimentati da storie d'amore ben oltre il limite della banalità
e in cui la lingua è un fiorentino standard che coincide esattamente
con l'idea che l'italiano medio ha del toscano. La volgarità, mai
eccessiva, è esibita ma non urgente, macchiettistica e, dunque,
realmente volgare. La radice culturale è enfatizzata, quasi fosse
un marchio d'origine, rovesciando completamente la prospettiva dei
predecessori. Lo stesso vale per Panariello, attore televisivo che
punta tutto sul tormentone dei personaggi e non sulla loro
profondità comica: millanta una parentela artistica col Verdone degli
esordi, ma è anni luce lontano dallo sguardo balzachiano del romano,
restando sempre sulla superficie dei caratteri, in cui la realtà contemporanea
è sfottuta ma, sotto sotto, ammirata. Ceccherini è, potenzialmente,
l'unico vero artista della covata, ma una vita personale un po' troppo
spericolata gli impedisce di far valere il proprio talento: eppure
nei suoi film, quasi volutamente di serie B, si rintracciano idee
e gag potenti, cariche d'una violenza comica fuori dal comune.
In nessuno di questi ultimi toscani, ormai neanche più nuovi o giovani,
si rintraccia un'eco lontana della necessità espressiva dei predecessori:
il rapporto con la terra d'origine si è capovolto in modo perverso
e la Toscana, da naturale trampolino di lancio, è divenuta un connotato
tanto esibito, inerte e, alla fine, irritante. Stabilità,
rilancio o declino?
La responsabilità della covata cecchigoriana sta tutta nell'affermazione
d'un modello mediatico che, se coi “padri” aveva trovato profondità
d'ispirazione e connessioni non banali con le proprie radici (Benigni
è, o era, più Cecco Angiolieri che Dante), adesso vive di elementi
esteriori, di coloriture, di cartolinismo. Una Toscana tanto simile
al Chiantishire degli inglesi che stanno comperando la provincia
senese, buona per gli spot delle merendine, ma oltremodo distante
dalla realtà contemporanea o da un'epoca aurea citata quasi sempre
a sproposito. È vero che, a tutt'oggi, l'accento fiorentino è
affermato segno comico, ma sembrerebbe da registrare un comprensibile
calo d'interesse verso il prodotto, a seguito delle inevitabili oscillazioni
del mercato. Se la Toscana pare avere qualche sparuta freccia al proprio
arco dal punto di vista della comicità, lo si deve alla “meno tosca”
delle sue città, quella Livorno meticcia e aliena (unico centro
urbano estraneo al passato medievale ed escluso da un processo identitario
plurisecolare), sboccata e irriverente: da qui sono partiti il regista
Paolo Virzì, il comico Paolo Migone, numerosi autori
satirici formatisi sulle pagine del glorioso Vernacoliere,
mensile di satira integra e cattiva che, di tanto in tanto, assurge
alle cronache nazionali grazie ai suoi titoli irresistibili (“Era
meglio un papa pisano”, in occasione dell'elezione di Ratzinger).
Livorno, però, è una Toscana altra, diversa, che solo l'occhio
inesperto del forestiero riesce a collegare, con errore, alle regionali
consorelle: le sorti del “nostro” filone non possono, probabilmente,
dipendere dai suoi artisti.
I movimenti nascono, vivono e muoiono: sorta con le tiratacce d'un
Benigni incazzato col mondo e le imprese degli zingari di Monicelli,
cresciuta con Benvenuti e Nuti, la moderna comicità toscana, nel momento
di affermata riconoscibilità sembra però destinata al declino d'una
contraffazione beffarda, come il risibile episodio accaduto a Cecchi
Gori il quale, sorpreso in piena notte dalla Guardia di Finanza con
nove grammi di cocaina nella cassaforte di casa (inchiesta poi archiviata
- uso personale), sosteneva con ostinazione che fosse zafferano.
Igor Vazzaz, toscano di origine friulana,
si occupa a vario titolo di teatro, tv, musica (come cantante e
autore), satira, cultura, collaborando con l’Università di Pisa
e varie testate. www.igorvazzaz.blogspot.com, www.myspace.com/tarantola31 |
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