Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto di Samuel Cogliati |
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Incontro con Mario
Botta “Architetti come una
volta” L’organizzazione dello
spazio di vita umana alla prova della densità urbana dettata
dall’equilibrio economico. di Samuel
Cogliati |
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Mario Botta fu il fautore dell’Accademia di Architettura di Mendrisio,
in Canton Ticino, nata nell’ottobre 1996 come prima facoltà dell’Università
della Svizzera italiana. Economia, Scienze della comunicazione e Informatica,
basate a Lugano, si aggiunsero negli anni seguenti. Istituzioni che
oggi rispondono anche all’esigenza di rappresentare la cultura italiana
(di cui il Ticino è parte) all’estero e di aderire alle rigorose scelte
strategiche di sviluppo di un Paese come la Svizzera.
Abbiamo conosciuto l’architetto Mario Botta all’Accademia in un incontro
piuttosto informale, durante il quale ci ha parlato della posizione
dell’uomoarchitetto nella sua visione del mondo, più che di aspetti
tecnici. «Culturalmente - spiega Botta - il progetto dell’Accademia
nacque nel 1991, quando il Consiglio Federale mi chiese una riflessione
sull’insegnamento dell’architettura in Svizzera. Le storiche università
di Losanna e Zurigo andavano conservate così com’erano, ma mi sembrava
interessante pensare a un progetto diverso. Due anni più tardi, il
Cantone prese la decisione e io estrassi dal cassetto questo disegno.
La scuola nacque nell’incredulità delle altre otto università svizzere,
perché nessuno pensava che facessimo sul serio. A ottobre 1995 lanciammo
un anno sperimentale». «Noi non diamo soluzioni»
«Questa scuola ha un profilo che si distanzia molto da quello tecnico-razionale
delle scuole svizzere. Nasce in maniera complementare all’insegnamento
esistente e dall’idea che per rispondere alla complessità della cultura
moderna e alla rapidità della trasformazione del mondo attuale, per
l’architetto sia molto più interessante una formazione umanistica
anziché tecnica, come quella delle discipline esatte. Noi rovesciammo
il principio vigente, pensando che una scuola debba avere innanzi
tutto una funzione critica. Capire le cose è più interessante che
farle. Mentre gli altri avevano puntato tutto sulla logica, la matematica,
il computer... dal nostro punto di vista questo era un errore, perché
inseguiva le possibili soluzioni più che i problemi. La nostra scuola
voleva invece sollevare una riflessione: noi non diamo soluzioni,
quelle le dànno il mercato, la professione, la tecnologia, l’industria...
«Ecco perché all’accademia le discipline umanistiche svolgono un ruolo
importante: filosofia e storia del pensiero sono strutturali nei cinque
anni di studi. Abbiamo cominciato con Massimo Cacciari, poi con la
storia dell’arte insegnata da Carlo Bertelli, attingendo a piene mani
dalla cultura italiana, per proseguire con la storia del territorio
con Denevolo. E ancora il corso di “ecologia umana”: per un architetto,
ecologia è solitamente un termine che ha un significato tecnico:
stabilisce come isolare i muri, ottenere un risparmio energetico...
Noi le abbiamo dato un’accezione diversa con l’insegnamento del parigino
Albert Jacquard, al quale abbiamo chiesto di spiegare che cos’è l’uomo
oggi sulla Terra, dal punto di vista biologico. Gli è succeduto Riccardo
Petrella, che ha lavorato sul problema dell’acqua e dei cambiamenti
climatici, la grande trasformazione epocale che cambierà il mondo.
Petrella vorrebbe che il suo ciclo di lezioni contribuisse a un programma
di ricerca per preparare il nuovo protocollo di Kyoto del 2013.
«Abbiamo seguito la stessa strada per le materie scientifiche. Preferiamo
affrontare la matematica comprendendone i problemi, perché al cospetto
dei colleghi ingegneri noi architetti saremo sempre dei dilettanti,
ma non vogliamo subire i diktat della tecnica. Ecco perché ci servono
i pensieri e le idee della matematica. Per affrontare le scienze delle
costruzioni, ad esempio, abbiamo la necessità di capire perché l’uomo
sta in piedi, il che ci spiega tutti i problemi della statica, con
la trasmissione dei carichi al suolo. Così, per un verso semplifichiamo
i problemi, dall’altro andiamo in profondità. «Al centro di tutto
questo c’è poi la realizzazione del progetto, un progetto critico
- non tecnico - che tiene conto del contesto come fatto geografico
ma anche storico, di memoria. La sua creazione, negli atelier, occupa
il 50 per cento del tempo degli studenti.
La nostra scuola conta circa 100 allievi l’anno e dura cinque anni
più uno di pratica obbligatoria. Vorremmo dare una formazione generalista,
che formasse architetti “come una volta”, capaci di occuparsi di pianificazione
territoriale come di design. Siamo profondamente contrari al trend
attuale che moltiplica l’insegnamento specialistico, dal disegnatore
industriale al disegnatore di moda o di oggetti. Noi crediamo che
questo aspetto interessi soprattutto le scuole professionali o alcune
ditte molto più brave di noi a dare le risposte tecniche. «Con
la nostra scuola, inoltre, abbiamo aperto ciò che la Svizzera aveva
chiuso: una cultura multietnica, a cominciare dall’Italia, per poi
allargarci al resto del mondo. Perché i problemi delle favelas
dell’America latina sono altrettanto importanti di quelli del Kazakistan.
Quest’apertura vale anche nella selezione dei docenti, che provengono
da tutto il mondo e che possono restare fino a un massimo di 4 anni
+ 4. Non di più. Stesse condizioni per i professori “di ruolo”. Qui
di stabile non c’è nulla». - In che lingua si insegna
all’Accademia? «La prima lingua è l’italiano, la seconda l’inglese.
Alcuni docenti insegnano anche in francese o in tedesco, ma negli
atelier la lingua principale... è la matita, il disegno».
- Come avviene la selezione degli studenti? «C’è un numero
chiuso. Ci sono una prova scritta e una orale, che servono a verificare
che ci sia un “linguaggio comune”, fatto di matematica, storia dell’arte,
cultura generale... Ma noi spingiamo molto sull’autoselezione, cioè
sulla consapevolezza che per lo studente questo sia davvero il suo
lavoro». - La presenza dell’accademia sta cambiando Mendrisio?
«Sì. Quando abbiamo iniziato, non avevamo neppure una casella postale.
Oggi, a fianco dell’accademia, ci sono un campus per 70 studenti,
un’associazione che assegna borse di studio, l’archivio del Moderno
che attira ricercatori, un museo dell’architettura che sta nascendo.
Ma questa è una terra di architetti: dai tempi dei mastri comacini,
il fatto di avere laghi e montagne ha fatto sì che la gente di qui
o andava a vendere castagne o a trattare con la pietra nel mondo intiero.
Questa facoltà è legittimata da secoli di emigrazione, a San Pietroburgo,
a Mosca, con il Borromini, in America latina... Anch’io sono un emigrante,
anche se un’emigrante di lusso. Il 90 per cento del mio lavoro è “fuori”».
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Museo MART
Foto di Pino Musi |
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Museo MART
Foto di Enrico Cano |
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Santo Volto
Foto di Enrico Cano |
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Santo Volto
Foto di Enrico Cano |
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Berg Oase
Foto di Urs Homberger |
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Berg Oase
Foto di Enrico Cano |
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Petra
Foto di Enrico Cano |
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Château Faugères
Foto di Enrico Cano |
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Campari
Foto di Mario Carrieri |
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- Qual è il ruolo dell’architetto?
«È molto semplice: organizza lo spazio di vita dell’uomo - dall’oggetto
domestico alla dimensione territoriale -. Al di là delle linee politiche,
penso che questo dovrebbe essere di competenza dell’architetto».
- Quanta libertà ha l’architetto, oggi? «Da un lato,
pochissima. In questo mondo, infatti, molte scelte avvengono a monte
della disciplina. Anzi, non le fa più nessuno. La complessità del
nuovo e la rapidità della trasformazione non dànno più posizioni univoche.
Quando va bene, c’è una risposta parziale, perché l’indotto o il relativo
modificano più il contesto che l’azione per la quale si è intervenuti.
Di riflesso, noi viviamo di una serie di elementi che leggiamo come
un grande caos e che di volta in volta modificano le strategie di
spazio». - Quindi oggi l’architettura è un po’ l’arte
di adattare lo spazio? «È l’atto di progettare. Ma questo
progetto è subordinato a tantissime componenti: ecologiche, ambientali,
economiche, finanziarie... Il nostro tentativo è di dare più consapevolezza
e di non lasciare queste scelte alle grandi multinazionali o ai general
contractor. Il modello di abitazione di Milano non è determinato dagli
architetti, ma da Ligresti. Milano subisce. La complessità è molto
elevata e lo spazio dell’architetto è molto limitato, ma quando è
possibile, quando il progetto riesce a stabilire una sintesi, poi
lascia il segno. O si costruisce per la città o si costruisce contro
la città». - In ultima analisi, la libertà dell’architetto
sta nella miglior sintesi possibile? «Sì. Quanto più un architetto
sa trasformare questa complessità in un fatto formale, tanto più forte
è il progetto. E tanto meglio sono intuite le esigenze della collettività.
Oggi è difficile interpretare. Io sto progettando una chiesa: per
fare una chiesa dopo Picasso o Duchamp... bisogna reinventare un senso
estetico ma anche etico che risponda alla sensibilità del mondo di
oggi. E così nell’abitare o nel trasporto. La città ha perso due connotazioni
che l’avevano sempre identificata: l’idea di centro e quella di limite.
Oggi i centri sono molteplici e il limite è superato da un tessuto
urbano continuo. Sono temi enormi. Se non so come affrontare questi
temi, io rifiuto l’incarico, altrimenti diventa un tormento. Non si
può fare tutto». - In tessuti urbani così congestionati
come i nostri, la verticalità ha un valore, nell’architettura di oggi?
«Più che la verticalità di per sé, quando si costruisce, oggi spesso
è in gioco la densità urbana data da un equilibrio economico. Non
ci sono disponibilità infinite, i valori reali - in buona sostanza
soldi dati alla comunità [servizi, strutture, parcheggi... ndr]
- sono pagati poi da chi acquista i manufatti. Quando è in gioco un
alto numero di metri quadrati su una superficie, il costo è dato dallo
spazio che si vuole lasciare libero a terra. Sono leggi economiche,
non architettoniche. La densità urbana è un problema di piano, di
scelte politico-economiche, non dell’architetto. «Se potessi, io progetterei
solo chiese o luoghi di culto. Il tema del sacro è interessante, in
una società apparentemente staccata da queste questioni. La chiesa
ha analogie con il teatro, ad esempio, ma è più essenziale: si entra
per meditare e andare oltre il finito, ma senza tutta la macchina
scenica del teatro. Io credo nell’architettura, per fare l’architetto
bisogna credere nell’architettura, è la sola cosa sicura - il resto
è personale e bisogna mantenere distinti i vari piani -. Le chiese
più brutte costruite nel Novecento sono state fatte in nome della
fede, perché gli progettisti erano buoni fedeli ma pessimi architetti».
- Per degli architetti, lavorare in due, a quattro mani, è
più facile o più difficile? «È impossibile. Nel mio modo di
lavorare, è impossibile. Ciò che io demando a partner locali è la
parte esecutiva, perché l’architettura è un fatto locale, per cui
servono interlocutori». - Perché in terra lombarda - a
Milano come a Lugano - si usa così poco il colore? «Noi abbiamo
un po’ una tradizione purista. Sia nell’architettura organica, dove
il materiale è sacro e non si può modificare, sia in quella modernista
e razionalista, come il Bauhaus, questa concezione è conservata inconsciamente».
- È una sorta di castrazione? «No. Non è una castrazione
anche perché il colore può annoiare. Il colore è dato dalle persone,
dalla vita, ma se lei ha uno spazio tutto rosso... diventa difficile...
E poi c’è la componente geografica e antropologica. Da noi il colore
assorbe troppo la luce, infatti quella mediterranea è una cultura
del bianco. Vede, non si può prescindere da questo genere di costanti
oggettive, come anche la trasmissione dei carichi al suolo. Lì c’è
un grande equivoco dei media, un po’ come le mode culturali: “Quest’edificio
è bello perché è leggero”, dicono alcuni. Balle! Se voglio fare qualcosa
di leggero faccio un aereo. L’edificio trova la sua ragione d’essere
nella gravità. Le nostre città sono belle perché lavorano a gravità,
con l’idea del peso, della durata, dell’appartenere alla terra madre.
Certo, ci sono delle scappatoie... ma la leggerezza di cui si parla
oggi è ancora figlia di Calvino, è letteraria. Nella costruzione,
la leggerezza fa ridere: si parla di migliaia di tonnellate da trasmettere
al suolo». - La forza di gravità è all’origine dell’uso
della linea retta? «No. Basta pensare alla torre di Pisa...
[ride] La scelta della retta rispetto agli altri 359 gradi
è semplicemente perché è la più razionale, perché si appoggia perpendicolarmente
a terra. Se ci appoggiamo con una linea inclinata, le forze diventano
due: una verticale e una orizzontale». - Quindi più razionale
nel senso di funzionale, semplice da gestire? «Sì, più semplice,
economica. Io preferisco le forme pure, i solidi primari: il cubo,
il triangolo, la sfera, il cilindro... perché hanno una percezione
immediata. Si dà al cervello la possibilità di leggere il tutto. Heidegger
diceva che l’uomo abita quando ha la capacità di orientarsi
all’interno dello spazio. Quindi la capacità di leggere lo spazio
ha un valore abitativo. Un cilindro lo leggo anche dietro alle mie
spalle, perché il mio cervello costruisce automaticamente anche la
profondità». Chi è Mario Botta?
In un mondo votato alla specializzazione un uomo come Mario Botta
è quasi una nota stonata. L’architetto svizzero, nato a Mendrisio
nel 1943, è tornato nella sua città da un ventennio dopo aver lasciato
un segno, architettonico, un po’ in tutto il mondo. Obiettivo: fondare
la nuova Accademia di Architettura.
Da una persona che realizza il suo primo progetto a 16 anni c’era
da aspettarsi una grande carriera . Dopo gli studi al liceo artistico
a Milano e all’istituto universitario di architettura Iuav di Venezia,
Botta inizia a progettare case unifamiliari che lo rendono noto. Da
allora la sua fama, di disegnatore e di insegnante, cresce fino a
diventare mondiale. Tra le opere più famose la ristrutturazione, dal
2002 al 2004, del teatro alla Scala, il museo di Arte Moderna di San
Francisco (dal 1989 al 1995) e la torre Kyobo a Seoul (dal 1989 al
2003). Nel suo curriculum può vantare collaborazioni con Le Corbusier
e Louis Kahn. Poliedrico ma anche pragmatico - un po’ come la sua
idea di architettura - Botta non si è mai focalizzato su un tipo di
costruzione ma ha spaziato in tutti campi, variando anche nello stile
e nella scelta dei materiali. Il grande amore di questo creatore,
però, è uno: il luogo di culto. Vibrazione nata dall’interesse per
la sacralità di questi edifici e stimolo per l’architetto a uscire
dalla dimensione di disegnatore per approdare a quella di pensatore.
(Giulia Pepe) |
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