[N.B.: l’immagine ha il solo scopo di illustrare il problema]
di Samuel Cogliati
• 14 novembre 2022 •
Lo attendevo al varco con timore da anni, ed è arrivato. Intendo il momento in cui anche il rugby avrebbe ceduto alla tentazione di scrivere il nome del giocatore sulla maglietta.
Era troppo bello per essere vero: uno sport che resisteva alla prassi di spiattellare il primo piano l’identità dei suoi attori. E invece, anche il più nobile e virtuoso degli sport di squadra, quello in cui il collettivo conta sempre e comunque di più del singolo – anzi: in cui il collettivo solo conta – si è piegato alle necessità dello spettacolo. Forse della tivù, forse degli sponsor, chissà.
Comunque sia, almeno ad “alti livelli”, ossia nel rugby professionistico internazionale, quello in cui circolano i soldi, ora persino le maglie delle squadre nazionali riportano il nome di chi le porta sulla nuca.
È stato raggiunto un altro stadio della personalizzazione, della marketizzazione, della starificazione. Forse così si venderanno più magliette personalizzate, vai a sapere.
Certo, mi pare di intuire che i nomi siano riportati in carattere amovibili, in ossequio all’idea che una maglia non appartiene d’ufficio a un rugbista, ma che dovrà continuare a guadagnarsela, visto che i numeri di maglia si ostinano a coincidere con un’indicazione del ruolo. Chissà se e quanto anche questo durerà. Chissà.
Immagino che a qualcuno questo rammarico possa sembrare pedante, passatista, retrogrado. E forse ha anche ragione. Ma a me proprio dispiace. •