Credere all’unità europea è l’unica scelta di buon senso
di Samuel Cogliati
maggio 2017
Il 9 maggio è la Festa dell’Europa. Una ricorrenza ben lontana dallo spirito e dalla mentalità degli europei. Commemora il discorso che l’allora ministro degli Esteri francese, dal nome germanico, Robert Schuman, pronunciò nel 1950 per esporre, a pochi anni dalla più devastante guerra mai vista tra i paesi europei, una nuova visione dei rapporti umani tra le nazioni del Vecchio Continente. Una visione di pace e unità.
Quella visione, con grandissima fatica, è andata lentamente concretizzandosi. Ha dato agli europei la possibilità di muoversi da uno Stato all’altro con più facilità, di stabilirsi in un altro paese in modo meno complicato, di lavorare e studiare fuori dai confini nazionali, di far circolare meglio le merci, nonché una moneta comune. Quanto la realizzazione dell’Unione europea sia mediocre, piena di falle, di incoerenze, di paradossi, di ingiustizie, di frustrazioni, di controsensi, ecc. è una verità talmente evidente da risultare quasi banale. L’Europa va profondamente ripensata, riformata, rifondata su basi molto diverse: la solidarietà, l’equità, la condivisione, la partecipazione democratica, ecc.
Non è il caso di stilare un programma politico della nuova UE. Voglio però dire due cose.
Primo: credo che il tempo della sovranità degli Stati nazionali europei, così come l’abbiamo conosciuta negli ultimi secoli, sia finito. Anziché pretendere di “riprenderci” una moneta nazionale, dei confini nazionali, una sicurezza nazionale, ecc., noi europei dobbiamo deciderci, in fretta, a compiere il passo opposto. Io non voglio solo una moneta e un mercato unici; io voglio una fiscalità unica, una sicurezza e una difesa uniche, dei confini comuni, un piano e regole educative uniche, un bilancio unico, una giustizia comune, una mobilità unica, un esecutivo e un parlamento comuni che governino, per tutti, in una logica di parità. Se, per raggiungere questi obiettivi, occorrerà operare delle distinzioni temporanee tra due gruppi di Stati che procedano con due ritmi di integrazione diversi, potrebbe anche andare bene.
Secondo: se auspico questo possente passo in avanti verso un’unione federale degli Stati – o delle regioni europee – è per due motivi: a) l’unico spirito che può reggere all’esplosione delle tensioni culturali, economiche, religiose, etniche che il mondo attuale sta attraversando, è uno spirito di avvicinamento e apertura, non di allontanamento e chiusura. «Le nationalisme, c’est la guerre», «il nazionalismo è la guerra», disse il presidente della Repubblica francese François Mitterand, davanti al Parlamento europeo il 17 gennaio 1995. E la guerra, in Europa, siamo riusciti a sradicarla da oltre 70 anni. Non disabituiamoci a questa straordinaria, fragile conquista; b) che ci piaccia o no, la globalizzazione ha spostato la barra dei meccanismi economici e istituzionali su una dimensione più grande. A fronte di potenze come la Cina, gli Stati Uniti o l’India, e di un sistema economico mondiale, i singoli Stati europei non sono più nulla. L’Europa unita è l’unica dimensione possibile per non essere immediatamente spazzati via e asserviti.
Al di là delle nostalgie e delle simpatie, siamo europei; possiamo solo essere europei. Crediamo nell’Europa. E non aspettiamo che qualcuno ce la costruisca come piacerebbe a noi: concorriamo a crearla quotidianamente.