di Samuel Cogliati Gorlier
• 23 dicembre 2024 •
La stanza accanto, di Pedro Almodóvar, Leone d’oro a Venezia 2024, mi sembra un’occasione persa. L’idea è buona: parlare in tutta franchezza di un tema cruciale come l’eutanasia, o meglio, il diritto di morire in dignità. Parlarne tenendosi stretti alle implicazioni che porta con sé: dai tormenti interiori alla libertà e al coraggio della scelta, dai rapporti con gli affetti alle conseguenze legali, all’ipocrisia di una civiltà che, nonostante la sua evoluzione illuministica, non è ancora pronta ad accettarla con la naturalezza che merita.
La pellicola del 75enne regista castigliano affida il còmpito a una Tilda Swinton algida e innaturale, a una sceneggiatura macchinosa, a dialoghi prevedibili, a una struttura narrativa troppo lineare. Un film di maniera, che chiede alle musiche di Alberto Iglesias di risollevarne in pathos, indugia in quel gusto dei colori che sappiamo essere uno dei marchi di fabbrica (un po’ triti) di Almodóvar, fa leva su facili citazioni letterarie.
La stanza accanto ci prova, con scarsa convinzione, raggiungendo un risultato di plausibilità ma non di credibilità. Troppo plastificato il mondo dei benestanti newyorkesi per potersi riconoscere, troppo compiaciuta la ricerca delle ambientazioni. Il film non coinvolge, resta un esercizio di stile un po’ noioso. Ed è inevitabile farsi domande sull’interesse di opere di artisti a fine carriera, cui forse iniziano a mancare cose da dire o capacità per dirlo altrimenti. •