Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il
numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione
che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano
il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante
altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra
rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto
di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati.
Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona
per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie
così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si
aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata
- e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere
eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così
entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso
di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il
vino, il rugby e il viaggio.
Contatta la redazione: redazione@possibilia.eu
I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare
il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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illustrazione di Laura
Zannoni |
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Costume/2:
quell’accessorio d’origine croata Un
priviliegio chiamato cravatta Eleganza,
simbologia, intralcio, potere, superfluo. di
Samuel Cogliati |
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Difficile sospettare che il vocabolo cravatta venga dal croato.
Eppure, l’origine etimologica di questo capo d’abbigliamento - anzi,
accessorio, come è d’obbligo definirlo oggi - è proprio hrvat.
Nell’immaginario collettivo occidentale, il mondo slavo non coincide
certo con l’eleganza; che la ragion d’essere della cravatta, in realtà,
sia un’altra?
Più che un vezzo, la cravatta è un simbolo. Un omaggio rispettoso,
quando la mettiamo per un matrimonio o una cerimonia; un segnale di
potere o distinzione, se la usiamo in un luogo di lavoro. È soprattutto
da giovani che si indossa per darsi un tono maturo, un’aura dandy:
a vent’anni ci si annoda una striscia di seta colorata (o, meglio
ancora, nera e allentata!) attorno al collo... con la stessa urgenza
che ci spinge ad accendere la prima sigaretta.
A una certa età, invece, si usa la cravatta per una forma di necessità,
e la si abbandona appena possibile. Chi la mette per lavoro, la toglie
nel tempo libero; chi la sceglie nel tempo libero, non ne ha bisogno
quando lavora... Se la teniamo sempre, è segno di insicurezza. A seconda
di come la si guarda, questa striscia di tessuto pende dal colletto
indicando le parti basse come una freccia (ne ha anche la forma!);
oppure sale dal pube (dove è più larga) con ostentata verticalità.
Impossibile non associarla, almeno un istante, con un feticcio fallico.
E non è un caso che molti uomini potenti forse anche impotenti -
la liscino continuamente.
Ma la sessualità ha riflessi sociali: la cravatta serve da spia, si
sforza di dire qualcosa. Probabilmente, innanzi tutto rispettabilità
e autorevolezza. Pare che, incrociandolo nel corridoio di una radio,
Mike Bongiorno ammonisse un Gerry Scotti esordiente: «Perché non porti
la cravatta?! Se vuoi diventare qualcuno, devi portare la cravatta!»
Un consiglio che Scotti sembra aver imparato e seguito a lungo, vestendo
completi impeccabili fino a qualche anno or sono, quando anche lui
iniziò a disfarsi di questo arnese. “Essere qualcuno”. Nei
palazzi della politica, la lezione è chiara: la cravatta va portata,
quasi come riconoscimento istituzionale, nella propria divisa d’ordinanza.
La scelta del taglio, del colore o del pattern è cruciale: cravatta
verde (almeno nelle grandi occasioni) per i leghisti, cravatta scura
per i conservatori, un tempo cravatta rossa per gli uomini della sinistra.
Fino a quando irruppe sulla scena politica Silvio Berlusconi. Il leader
del Popolo della Libertà non è riuscito a imporre i suoi ampi colletti
inamidati (e datati), né il suo rigido doppiopetto, ma ha fatto scuola
con le sue cravatte. L’irrisione dei vignettisti e degli autori satirici
è durata pochi anni: la cravatta scura à pois bianchi ha resistito
a tutto e a tutti, travolgendo anche le ultime riluttanze. Da Massimo
D’Alema al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, tutti
hanno adottato, almeno a tratti, la cravatta à pois. Come una
rincorsa, il presagio di una resa caratteriale, se non ideologica.
Come un’affannosa urgenza di urlare «ci sono anch’io! Anch’io posso!
Yes I can, me too!»
A un certo punto, è cambiato il vento. Oltreoceano si è iniziato a
vedere presidenti senza cravatta, in giubba militare, in maglietta
o in felpa da footing, in giubbotto da baseball... E se lo fanno loro,
possiamo - dobbiamo - farlo anche noi. Senza cravatta, si rilassatezza,
umanità, fiducia e al tempo stesso si riduce quella distanza divenuta
insopportabile tra la politica, il potere e la gente.
In fine, è nata la scelta opposta: cravatta sì, ma senza giacca. La
cravatta ripristina la distinzione, la credibilità, ma la giacca è
d’ingombro, intralcia i movimenti, è adatta al burocrate seduto alla
scrivania con le mani in mano... Senza giacca si può persino rimboccarsi
le maniche.
A lanciare la moda, a quanto pare, sono stati gli anchormen
statunitensi, e di séguito tutti gli uomini della tv - giornalisti
in primis - desiderosi di mostrare il loro dinamismo. Nella televisione
italiana, tra i primi a fiutare quest’opportunità, Gianni Riotta e
Antonello Piroso, che in cravatta e camicia hanno scandito tanti editoriali.
Buon ultimo, Gianluigi Paragone, che all’Ultima parola (Rai
Due) ha rinunciato a giacca e cravatta, sostituite dalle bretelle.
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illustrazione di Laura
Zannoni |
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La cravatta ha anche una geografia. Non possiede lo stesso valore
ovunque. Resiste abbastanza bene nei Paesi tradizionalisti, come l’Italia,
mentre in altri, come la Francia, tende a divenire un orpello vetusto,
relegato ad àmbiti ufficiali e formali. Un valore ancora diverso dovrebbero
avere le divise giacca-e-cravatta degli scolaretti britannici.
Tra le tendenze degli ultimi decenni, colpisce la diffusione del “tono-su-tono”.
Indossare una cravatta dello stesso colore della camicia e della giacca
- in realtà la responsabilità è della camicia, forse scelta perché
l’inquinamento annerisce il colletto bianco è un paradosso castrante.
Perché lasciar sparire la cravatta su un fondo che la confonde? È
una prima tappa della sua scomparsa? Il segno dell’imbarazzo di chi
vorrebbe che si notasse il meno possibile, visto che non può farne
a meno? O semplicemente la trovata di una moda che non sa più che
cosa inventare?
Comunque stiano le cose, speriamo che la cravatta non sparisca. Segno
del superfluo, sarebbe bello che smettesse di essere un obbligo, per
trasformarsi in ciò che di meglio sa fare: ìndice dell’umore, annotazione
della personalità e del gusto personali, barometro della sensibilità
estetica, della capacità di provocare o, in fine, espressione del
rispetto che si deve o si vuole a una persona, a un superiore, a una
donna. In una civiltà che lima le differenze e assottiglia le distinzioni
formali tra i due sessi (entrambi troppo glabri), la cravatta è forse
un appiglio, un pretesto. Non per sentirsi uomini grazie al fatto
di averla, ma per difenderne l’onere. E se indossare una cravatta
tornasse ad essere una responsabilità, un privilegio da conquistare? |
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