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Il periodico
Dopo una laboriosa (e avventurosa) preparazione, a ottobre 2009 esce il numero zero di www.possibilia.eu periodico online per curiosi. Una realizzazione che riflette l'orizzonte libero e senza preconcetti della nostra linea editoriale.
Da subito, un gruppo di autori aderisce al progetto, alcuni dei quali formano il nucleo redazionale più stabile.
Possibilia si non si propone di fare informazione in senso stretto: tante altre testate più veloci e attrezzate ricoprono già questo ruolo. La nostra rivista desidera offrire ai suoi lettori contenuti insoliti, dando diritto di cittadinanza a temi o chiavi di lettura spesso trascurati o snobbati. Un periodico generalista a 360 gradi? Solo in parte. Possibilia non funziona per compartimenti tematici, ma per modalità di approccio alla materia. Accoglie così una sezione per Dilettarsi, una per Pensare e una per Sorridere. Si aggiungono una sezione di News - la sezione “d'attualità” della testata - e una sezione destinata ai Pubbliredazionali, con lo scrupolo di mantenere eticamente distinti contenuti commerciali e redazionali, valorizzando così entrambi.
Con la nuova versione della rivista, inaugurata nel 2012, abbiamo deciso di aggiungere una sezione (le Rubrilie) dedicata alle nostre passioni: il vino, il rugby e il viaggio.

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I libri
Nel 2010, gli esiti incoraggianti della rivista e il desiderio di ampliare il progetto editoriale dànno vita alla parte cartacea della nostra attività.
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foto di Samuel Cogliati
Il piacere della “tazzulella”

L’allungo vincente
Perché il caffè non si giudica dalla taglia.

di Samuel Cogliati

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L'Italiano ritiene con fierezza di essere l'unico capace di fare il caffè. Sbaglia. Non solo: qualunque caffè diverso dall'espresso del bar è, di fatto, un caffè di serie B. Sbaglia di nuovo. Convinzioni frutto di uno sciovinismo tanto meschino da attecchire ed esprimersi quasi solo in cucina e sui campi da calcio.

Le convinzioni dell'Italiano in questione sono fondate ma molto fragili. Entro certi limiti e con varie eccezioni, è infatti vero che una bevanda concentrata sia migliore di una diluita. Ad esempio, un vino strutturato ha più probabilità di piacere di un vinello annacquato. Una credenza - un tempo molto assennata - valuta ancora oggi la bontà di un vino dal suo grado alcolico. Ma è vero anche il contrario: un novello, uno spumante o un rosato leggeri sono in genere più gradevoli degli stessi tipi di vino molto robusti. Questi vini sono infatti gradevoli proprio perché lievi e serbevoli.
Allo stesso modo, molte birre doppio o triplo malto sono spesso alcoliche, pastose, dolciastre, stucchevoli, mentre certe lager, pils o english ale da 4 o 5 gradi si bevono facilmente e con grande appagamento.
Per non parlare dei distillati - la grappa, il brandy, il cognac o il whisky -, che fanno della diluizione un presupposto della loro stessa esistenza! Appena distillati, arrivano a 60 o 70 gradi alcolici e la tecnica produttiva prevede l'aggiunta di acqua per renderli godibili.

foto di Samuel Cogliati

Questo discorso vale anche per il caffè, naturalmente. Un caffè concentrato, come l'espresso del bar, non è necessariamente migliore di un caffè diluito, come il caffè lungo o quello che in Italia si chiama “americano”. Anzi, diversamente dal vino e dalla birra, che se troppo leggeri diventano davvero poca cosa, il punto d'equilibrio del caffè è più malleabile. La tazzina del bar può essere eccellente, oppure pessima, gli esempi aumentano giorno dopo giorno. Ma può essere ottima anche la tazza da mezzo litro del caffè all'americana: Starbucks insegna. (Provatelo, se non vi è ancora capitato. Il fatto che sia assente in Italia è probabilmente il segno di un protezionismo economico, mascherato da snobismo).
Che cosa conta, dunque, nella riuscita di un buon caffè? Verosimilmente alcune variabili: la qualità della materia prima, la perizia della torrefazione, la bontà dell'acqua, la pulizia della macchina, la mano del preparatore, il tempo atmosferico. Non ultime, le aspettative e la duttilità mentale del bevitore.
Peraltro, attenzione: sia la concentrazione sia la diluizione mettono in evidenza i difetti di uno o più di questi elementi. In un espresso, una miscela torrefatta grossolanamente mostra la sua amarezza e le sbavature gustative bruciaticcie. In un caffè “americano”, un chicco dall'aroma povero emana profumi sgraziati e poco significativi. Proprio la delicatezza dell'aroma - la sua purezza, la sua finezza, non la sua intensità! - è una delle cose che un caffè lungo sottolinea. Mettetelo alla prova, e prestate attenzione, annusandolo con calma e trattenendolo un po' in bocca, prima di deglutire.
La versione diluita è probabilmente quella più adatta alla moka. La “macchinetta” di casa, in fondo, è da sempre il caffè meno apprezzato dagli italiani, che sembrano tollerarla per affetto più che per gusto. Caricate il filtro con un terzo o un quarto della polvere che utilizzate di solito, non dolcificate con zucchero bianco raffinato (semmai con zucchero bruno o miele, ma il caffè leggero è buono anche amaro!) e avvicinatevi alla tazza come fareste con un infuso.

La supremazia italiana nella preparazione del caffè - un tempo evidente, oggi meno sicura - è invece dettata probabilmente da motivi culturali: l'importanza assegnata al cibo. Ecco perché, per lungo tempo, in Italia si è voluto fare del buon caffè.
La fortuna dell'espresso a detrimento dei caffè lunghi, invece, potrebbe spiegarsi facilmente con il clima caldo, che non invoglia a bere grandi quantità di bevande calde. Un caffè corto - italiano, greco, turco... - è quasi automaticamente concentrato.
Unite l'amore per il cibo e l'avversione per le bevande calde e abbondanti ed ecco spiegata la teoria del “corto è buono”. Ma questo resta tutto da dimostrare...
     
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