di Samuel Cogliati Gorlier

• 13 settembre 2023 •

L’altra sera sono stato a cena in un noto e stimato ristorante. Anche se non è più considerato davvero hype, questo locale rimane nel novero di quelli che hanno contribuito alla “rinascita” culinaria contemporanea della sua città, e gode tuttora di una certa considerazione.

Ambiente curato, informale ma accogliente, non privo di una certa eleganza. Anche l’originalità non gli manca.

In carta, tre possibili menù, articolati attorno ad altrettante soluzioni di prezzo, non molto distanti tra di loro e non eccessivamente onerose.
La differenza tra i tre menù è determinata dagli incroci tra le varie combinazioni di piatti, del tipo: menù A, due antipasti, un primo a scelta e il dolce; menù B, due antipasti, il secondo e il dolce.

Passando in rassegna le portate, figurano tuttavia in carta due antipasti, due primi, un secondo, un dolce. Di fatto, la possibilità di scelta è pressoché nulla. A questi parametri fissi si aggiungono cinque o sei proposte “fuori menù”: due o tre portate assimilabili agli antipasti, un primo, un secondo, un dolce.
La carta dei vini – qualche anno fa ampia, varia e stimolante – è ridotta all’osso e piuttosto ridondante.

Mi hanno detto che questo tipo di formula prende il nome di home restaurant. Ovvero una proposta che si avvicina alla logica di quel che passa il convento. È cioè il ristoratore a fissare i paletti all’interno dei quali muoversi, e il cliente si adegua.

Mi sembra una strategia del tutto sensata, poiché consente una rapida e abbondante rotazione delle materie prime, stagionalità, efficienza in cucina. Tuttavia mi pare idonea a una trattoria senza alte pretese, con pranzo a prezzo fisso di 15 euro e portate “classiche”, di impostazione piuttosto neutra, tra le quali muoversi senza sorprese ma anche senza imbarazzi: pasta al ragù, risotto alla milanese, arrosto di vitello. Quando l’interpretazione del cuoco inizia a prevalere e gli ingredienti si fanno più estrosi, diviene meno scontato per il commensale trovare soluzioni di suo gusto (per non parlare delle allergie e delle intolleranze).

Quest’esperienza è solo l’ultima di una serie di casi analoghi nei quali sono incappato negli ultimi mesi, in varie località di vari paesi.

Ho l’impressione che lo home restaurant faccia perno sin dal nome sull’idea che tu, cliente, sei ospite di un padrone di casa che “mena la danza”. Che il ristoratore sia cioè l’autore, l’interprete, e il commensale uno spettatore, come in un concerto o a teatro. E mi pare che questa prospettiva sia azzardata, fondamentalmente inopportuna e poggi per così dire su un equivoco: che il cuoco sia un artista e il pasto uno spettacolo.
Fermo restando che uno a casa propria fissa le regole che vuole, e che se ha successo commerciale ha probabilmente ragione, a me parrebbe più giudizioso e salutare che la ristorazione facesse un piccolo passo indietro, dando prova di modestia, e riguadagnasse un atteggiamento più consono con l’ottica di servizio. 

Non sono tra coloro che ritengono che «il cliente ha sempre ragione», anche perché il cliente attuale è sempre più spesso arrogante e ingiustificatamente esigente.
So bene di avere una visione datata e superata dai fatti, ma se vengo nel tuo ristorante vorrei, nel limite della ragionevolezza, scegliere che cosa mangiare e bere, e non adeguarmi supinamente all’ego del cuoco. Specialmente se spendo 50 o 80 euro a persona. Se no, vado all’home restaurant di casa mia, o di un amico. •

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