di Samuel Cogliati

• 11 agosto 2021 • 

Lo scorso 29 luglio il Syndicat général des vignerons de la Champagne (Sgv) ha votato con un’ampia maggioranza (34 voti su 50) a favore dell’introduzione di quattro modifiche del disciplinare di produzione (cahier des charges) della denominazione d’origine (appellation d’origine). I quattro punti all’ordine del giorno sono:

• trattamento obbligatorio delle barbatelle all’acqua calda, per combattere la flavescenza dorata;
• divieto di diserbo invernale;
• introduzione del vitigno resistente Voltis;
• autorizzazione delle viti semi-larghe (Vsl).

Ora la palla è in mano all’Institut national de l’origine et de la qualité (Inao), che dovrà approvare o rigettare la proposta. I bene informati sostengono che potrebbe trattarsi di poco più di una formalità, e si prevede una ratifica nei prossimi mesi. 

Sui primi due punti non c’è stato particolare dibattito; assai diversa è la situazione per il Voltis e soprattutto le Vsl. La frangia di vignaioli contrari (#novsl) lamenta la scarsità e l’opacità delle informazioni, l’elusività degli organismi che hanno condotto le sperimentazioni e un dialogo inesistente durante gli incontri tenuti online o in presenza negli scorsi mesi. 

Il vitigno Voltis
Il Voltis è un vitigno resistente alle più insidiose e comuni patologie delle vite, in particolare l’oidio e la peronospora. Permette dunque di azzerare o quasi i trattamenti fitosanitari. È stato ottenuto dall’Institut national de la recherche agronomique (Inra) per ibridazione ripetuta tra il Villaris e un discendente della Muscadinia rotundifolia. Non è dunque un ibrido produttore diretto ma una varietà che ha immagazzinato il 95% del Dna della Vitis vinifera. In Francia è iscritto al catalogo delle viti da vino dal 2018. È relativamente precoce e poco aromatico; i suoi vini sono descritti come abbastanza simili allo chardonnay. La proposta del Sgv è di autorizzarne una presenza massima del 5% in vigna e del 10% negli assemblaggi, in via sperimentale per una durata di 10 anni. Si prevede in particolare di piantarlo a ridosso dei centri abitati, per ridurre i fenomeni di deriva dei fitofarmaci in queste aree, tamponando così in parte un problema sanitario molto sentito e dibattuto. 

Le viti semi-larghe
È il vero capitolo che scotta. Già negli anni Ottanta la Champagne iniziò a sperimentare alternative al sistema tradizionale di viti ad alta densità e mantenute basse vicino al suolo, qualitativa eredità di un passato remoto ma onerosa e faticosa da coltivare. Alla sperimentazione del metodo di conduzione a lira, avviata nel 1986 e durata una quindicina di anni (con risultati incoraggianti), dal 1995 si è affiancata e poi sostituita la sperimentazione di filari distanziati, con notevole riduzione del sesto d’impianto. Inizialmente condotto dall’Inra – secondo la wine writer Caroline Henry con risultati in chiaroscuro – l’esperimento è poi passato in capo al settore tecnico del Comité interprofessionnel des vins de Champagne (Civc). In tutto sono stati approntati 17 siti distribuiti in tutta la regione, in ciascuno dei quali si è confrontato un appezzamento di Vsl (distanziate tra 1,5 e 2,2 metri, e con capo a frutto sopralzato di 20-30 cm rispetto alle viti ordinarie) con uno di viti tradizionali. Alcuni appezzamenti sono stati creati ex novo, altri ristrutturati per sradicamento di un filare ogni due. Il grosso della sperimentazione è iniziato nel biennio 2006-2007. 

In sintesi, secondo i resoconti ufficiali, 15 anni di sperimentazioni avrebbero portato ai seguenti principali risultati: più zucchero e più acidità nelle uve da Vsl; maggiore ergonomia delle viti Vsl per i lavoratori; miglior permanenza dei fitofarmaci sulle parti aeree nelle Vsl (con conseguente riduzione dei trattamenti necessari); profilo organolettico indistinguibile o comunque non peggiore per i vini da Vsl (raffrontati ai vini tradizionali in 191 degustazioni alla cieca); infine e soprattutto costi di impianto e di lavorazione notevolmente inferiori rispetto al sistema tradizionale (rispettivamente di 27.581 €/ha contro 59.730 €/ha, e fino al 34% di costi annui in meno per quanto riguarda la gestione agronomica ordinaria).  

C’è poi il capitolo rese. Secondo i dati del Civc, le Vsl renderebbero il 18% in meno all’ettaro rispetto alle vigne tradizionali, con tuttavia un sesto d’impianto compreso tra 4 e 5.000 ceppi/ettaro, a fronte dei 6.300 minimi imposti oggi dal disciplinare e degli 8-9.000 ceppi/ettaro effettivamente utilizzati in media in Champagne. Numeri alla mano, se l’intento è preservare le rese complessive significa imporre in media un terzo circa di resa in più per pianta (parametro non certo entusiasmante sul piano qualitativo); l’alternativa è rassegnarsi a un terzo di uva in meno per ettaro, perdita secca che è difficile immaginare possa trovare consensi supini. 

La posta in gioco
L’autorizzazione delle Vsl implicherebbe una logica accelerata della meccanizzazione in vigna, riducendo la manodopera necessaria (stimata in –50%!). Questo implicherebbe una minor circolazione e trasmissione delle competenze professionali tra i vignaioli, una riduzione dei costi di produzione, ma anche investimenti tecnologici alla portata dei soli attori finanziariamente più solidi. C’è chi subodora già un dilagare sul mercato di offerte di esternalizzazione dei servizi viticoli (pacchetti “chiavi in mano” offerti da contoterzisti, che sono già una realtà), rafforzando ulteriormente la dipendenza dei piccoli viticoltori nei confronti dei soggetti forti.
Grazie alla meccanizzazione il prezzo dell’uva dovrebbe calare, favorendo il négoce che acquista la materia prima, e penalizzando i viticoltori. Ma questo significherebbe, come detto, anche una contrazione della disponibilità complessiva di materia prima, incoraggiando così in modo decisivo l’ampliamento dell’area geografica di coltivazione, processo pendente da quasi vent’anni. 

La meccanizzazione potrebbe anche spingersi fino all’introduzione della vendemmia a macchina (ad oggi vietata in Champagne, ma che da più parti si teme da tempo). Quest’automazione, che non consente di preservare l’integrità dei grappoli, unitamente alla minore adattabilità di pinot noir e meunier al sistema Vsl, dovrebbe logicamente concorrere all’espansione delle uve bianche, che non colorano i mosti, prima tra tutte lo chardonnay. Ma anche il voltis dovrebbe logicamente trovarsi favorito. 

Ultimo (ma non ultimo), il capitolo qualitativo. Difficile accreditare una rappresentatività alle micro-vinificazioni sperimentali condotte su meno di 10 ettari totali. Al contrario, gli argomenti a favore del sesto d’impianto ad alta densità sono storicamente numerosi. Commenta lo stimato giornalista enoico francese Bernard Burtschy: «Più è alta la densità, più è sottile lo spessore dell’apparto fogliare», il che a suo dire comporta nel caso opposto di bassa densità un consumo della vite per la propria attività fisiologica maggiore rispetto a quello riservato alla fruttificazione. Donde frutti meno qualitativi. Diffusa è anche la convinzione dell’importanza della densità d’impianto nella profondità del radicamento della pianta, il che la mette al riparo dalla concorrenza della flora superficiale, permettendo un equilibrato inerbimento, e influendo nella capacità di trovare nutrimenti di qualità.
Sostiene inoltre Caroline Henry: «con una minore copertura fogliare [imputabile al distanziamento tra i filari, ndt] c’è un maggiore rischio di danni dovuti all’eccesso di insolazione, ed è assai plausibile che l’irrigazione diventi inevitabile prima della fine di questo decennio, come ammette Maxime Toubart [presidente del Sgv]».
I fautori delle Vsl potrebbero portare il virtuoso contro-esempio dell’Alsazia, dove le viti larghe e alte sono diffuse. Si tratta però di altri vitigni, su terroirs differenti e soprattutto con un tutt’altro clima; senza contare che gli alsaziani, il cui mercato è in stagnante, non hanno certo bisogno di raccogliere maggiori quantità di uva. 

Voltis e Vsl, obietta il Sgv, non sarebbero obbligatori né vincolanti, ma solo facoltativi, e inizierebbero a entrare in vigore nel 2023. Non è tuttavia difficile travedere in filigrana l’acuirsi di una dicotomia già esistente in Champagne: da una parte una viticoltura artigianale caparbiamente ancorata alla parte migliore delle tradizioni territoriali, al savoir-faire; dall’altra una vitivinicoltura sempre più agroindustriale a basso costo, che lotta nell’ormai spietato mercato spumantistico internazionale (in forte crescita ovunque, e con un boom mondiale di vini più economici – vedi prosecco), punta a ottimizzare i margini di guadagno e impone le sue logiche globalizzanti a un’intera regione, deformandone la secolare vocazione elitaria. Basterà a uno champagne massificato continuare a brillare della luce riflessa del proprio nome? O sussiste il rischio concreto che uno champagne qualitativamente banalizzato possa opacizzare il nome che l’ha imposto nel mondo intero come il “re dei vini”? •  

cogliati@possibiliaeditore.eu


 

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